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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:20.
E se tutto, o quasi tutto, funzionasse come l'internet? Se la forza del network venisse applicata alla pubblica amministrazione e all'impresa, al governo e al processo democratico in generale? «Ho la convinzione che sarebbe un mondo migliore», osserva Steven Johnson, 45 anni, imprenditore del web e prolifico scrittore sul futuro. Non a caso, la sua convinzione l'ha vergata nero su bianco nel suo ultimo libro, «Un futuro perfetto», appena uscito in Italia per Codice Edizioni.
Secondo Johnson, i segnali del cambiamento già sono visibili. In America, Kickstarter (il sito per il crowdfunding) ha distribuito l'anno scorso 158 milioni di dollari a scrittori, registi e artisti, più del National Endowment for the Arts. In Brasile, nell'area di Porto Alegre, c'è il fenomeno del "budget partecipativo", grazie al quale la gente comune si esprime sulle opere pubbliche più urgenti da realizzare. «Queste persone credono fermamente nel peer network», la "rete dei pari".
La parola peer – così ardua da tradurre in italiano – ha scavalcato i confini del software peer-to-peer, trasferendo quel concetto di "pari", o se volete di uguaglianza, a molte altre sfere della società. «C'è una terza via, oltre alle due categorie dei conservatori pro-mercato e dei democratici pro-Stato ben rappresentata dal sistema politico americano», osserva Johnson, raggiunto al telefono nella sua abitazione di San Francisco. «È quella dei progressisti paritari», o peer progressives.
Lo scrittore ammette che la sua è una definizione provvisoria (che, di nuovo, in italiano suona malissimo). Ma quel che è importante, è il concetto: c'è un crescente numero di persone che «crede nel potere decentralizzato». Un potere esercitato dal basso, non più dall'alto. «I giovani fra i 15 e i 25 anni vedono il mondo in un modo nuovo: hanno visto molta meno tivù delle generazioni precedenti e, di conseguenza, hanno la sensazione, ma anche il bisogno, di essere protagonisti. Mi sbaglierò, ma credo che questa generazione sia politicamente più attiva e meno affetta da patologie sociali di quella precedente». In altre parole, quando i 25enni di oggi saliranno al Congresso o alla Casa Bianca – quindi nel giro di 15 anni – il mondo sarà pronto per il movimento dei progressisti paritari, «che si trasformi in un partito politico o no».
Scusi Mr. Johnson ma, anche senza scomodare Alexis De Tocqueville e la sua «dittatura della maggioranza», io resto colpito dai gusti "collettivi" della gente (i libri più venduti su Amazon, le canzoni più scaricate da iTunes, i film raccomandati dai cinefili su Imdb.com): non coincidono quasi mai con i miei. Come si può credere che la maggioranza abbia per forza ragione?
Steven Johnson se la ride. «Sì, capisco, succede anche a me. Però se lei compra un libro su Amazon e osserva un'altra classifica, quella dei libri comprati dai lettori che hanno acquistato il suo stesso libro, vedrà che i gusti sono molto più coincidenti». In altre parole, ci sono sempre dei pari più pari a te degli altri.
«Per quanto riguarda la dittatura della maggioranza – prosegue – credo ci sia bisogno comunque di un nuovo processo politico. Oggi in America, lobby e gruppi di pressione influenzano significativamente il Congresso. Come risultato, l'1% della popolazione ha un peso sproporzionato sulle scelte collettive: qualche forma di democrazia diretta non può che essere meglio». Immagino che lei si riferisca alla soluzione dei proxy. «Sì certo. Siccome posso anche non avere un'idea di come affrontare il problema della Corea del Nord o della spesa sanitaria, su quei temi posso affidare il mio voto a qualcuno di cui mi fido», da un caro amico a un celebre politico. «Le opportunità offerte dalla tecnologia sono infinite».
Ah, non c'è dubbio. Ma posso fare un'altra obiezione? Sui grandissimi temi, come ad esempio i cambiamenti climatici (dove l'America recita la parte del cattivo), le Nazioni Unite non riescono a decidere e un suffragio davvero universale, planetario, è per ora fantapolitica. «Beh – risponde l'autore – non sto dicendo che lo Stato e il mercato debbano scomparire. Il "network dei pari" è solo un livello in più. Può darsi benissimo che, in alcuni casi, il processo decisionale dal basso sia meno efficiente di quello dall'alto».
Però ci sono dei distinguo. «È grazie a un network di scienziati, che oggi conosciamo i rischi che vengono dall'uso dei combustibili fossili». Non solo. «Il modello peer-to-peer potrebbe rivelarsi efficace anche in altro modo: per integrare nella rete l'energia solare, che è sempre meno costosa, c'è bisogno di una rete intelligente dove ogni casa produca energia e venda dinamicamente quella che non gli serve. Sono cose che non erano neppure immaginabili, cinque anni fa. Magari succederà che l'America implementerà gli smart grid e smetterà di fare la parte del cattivo», perché tutto sommato il mercato si muove sempre in direzione della convenienza.
Già, ma le grandi imprese? Che convenienza possono avere, nell'adottare un approccio dal basso (bottom-up) invece che quello tradizionale dall'alto (top-down)? «Ce l'hanno già, eccome», risponde di getto Johnson. «Nel mio libro faccio diversi esempi. Ne menziono uno: quello di Whole Foods. La catena di supermercati di alta qualità ha stabilito che, nell'azienda, nessuno possa guadagnare più di 20 volte di un altro. C'è un sistema di peer-sharing dei premi di produttività, dove i team che "vincono" possono decidere di condividere il bonus con altri team, senza supervisori: i processi bottom-up sono incoraggiati. Il fatturato e la capitalizzazione di borsa di Whole Foods, suggeriscono che questa è la strada da seguire».
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