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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 15:44.

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Watson lo sa, sa tutto. Il più potente computer al mondo, quello che ha stracciato un essere umano rispondendo meglio a un quiz televisivo entrerà in uno smartphone. Dopo le sperimentazioni negli ospedali imparerà tutto sulle pratiche e sui processi di un'azienda e risponderà in tempo reale alle lamentele e alle richieste di aiuto degli utenti. Anche Wikipedia lo sa, anzi conosce a tal punto la Borsa e i mercati finanziari da essere in grado di prevedere crisi e andamento delle azioni.

Tobias Preis, professore di scienza del comportamento alla Warwick Business School pochi giorni fa ha pubblicato uno studio che mette in relazione il tasso di consultazione delle pagine web di argomento finanziario dell'enciclopedia online con gli andamenti dell'indice Dow Jones. Usando queste informazioni prese dalla rete Preis e il suo team hanno scoperto che ragionando sul lungo periodo esiste una relazione tra l'aumento delle pagine viste su Wikipedia relative a voci finanziarie e le crisi dei mercati azionari. Anzi, secondo lo studioso le informazioni online che noi lasciamo sono in grado di anticipare le nostre azioni. Nello specifico dello studio sui mercati finanziari ma più in generale nel mondo reale.

L'assunto è intuitivo ma in realtà tutto da dimostrare: consultandoci in rete, discutendo sui social network o cercando informazioni, in qualche modo riveliamo le nostre intenzioni. Chi, per esempio, usa Twitter e social network come sfogatoio di delusioni politiche e frustrazione in realtà non farebbe altro che rivelare il suo malessere. Malessere che prima della rete si esprimere in altro modo.
Ma, se davvero è così, se la rete è davvero dal punto di vista statistico un campione rappresentativo di ciò che siamo e vogliamo, sarebbe lecito domandarci cosa raccontiamo di preciso in rete (senza saperlo) e soprattutto a chi. Se la risposta alla prima domanda chiama in causa una dimensione filosofica dell'essere, alla seconda si può rispondere con più contezza. A tracciare il nostro comportamento digitale ci sono in prima linea tutte le aziende interessate a venderci qualcosa. E tutti quei soggetti interessati a sapere chi siamo.

Nello specifico sono software che estraggono informazioni e li traducono in algoritmi che descrivono comportamenti. Ma adesso la sfida è un'altra: anticipare i nostri desideri, rispondere a domande implicite. Ecco perché la nuova frontiera dell'intelligenza artificiale sta evolvendo verso sistemi predittivi. Google Now (su Android e da poco anche iOs) è in grado di aiutare l'utente in base alle ricerche fatte in precedenza, inviare mail in automatico quando questi raggiunge una certa località, consigliare musica, libri, videogiochi, trasporti pubblici. Le mappe di Google danno consigli personalizzati sui luoghi da visitare.
E non c'è mica solo Google. Osito assiste nel check in o ci chiama un taxi quando atterriamo, Tempo AI dà in automatico le indicazioni stradali per gli appuntamenti che legge in agenda. Cue riassume la nostra giornata in base a informazioni trovate nell'agenda, nelle email, nei documenti presenti sul cellulare.

«Da una parte, computer sempre più veloci. Dall'altra, capacità della tecnologia di raccogliere sempre più dati su di noi, grazie a cellulari e a sensori. Il risultato sono sistemi che arrivano ad anticipare le nostre mosse. In un certo senso, prevedono il futuro», dice Massimo Marchiori uno dei padri dell'algoritmo alla base di Google.
«Non è una moda passeggera, perché da anni si va in questa direzione – conferma Valerio Eletti, che si occupa di sistemi complessi all'Università La Sapienza di Roma –. Si realizza in fondo lo scenario del web semantico intuito da Tim Berners-Lee, padre della rete: internet evolve partorendo agenti in grado di capire il senso di ciò che facciamo». Molti esperti concordano che i rischi sono due: annullamento della privacy e omologazione del pensiero. «Non è facile creare sistemi che diano davvero i consigli giusti; spesso ancora scadono nell'inutile, tipo suggerire un prodotto già comprato.

Ma quando saranno perfetti c'è il rischio reale di un Grande Fratello», dice Andrea Rangone, a capo degli Osservatori Ict del Politecnico di Milano.
Il circolo vizioso è che i sistemi accumuleranno sempre più dati su di noi e noi saremo lieti di fornirli in numero crescente, per ottenere consigli più accurati. La scienza dei dati ha dimostrato che se so sufficienti cose su qualcuno – anche anonimo – ci può essere un algoritmo in grado di rivelarne l'identità e persino di desumere informazioni ulteriori. «I sistemi predittivi sanciscono un traguardo previsto da Marshall McLuhan – commenta Giovanni Boccia Artieri, sociologo dell'Università di Urbino ed esperto di digitale –, la tecnologia che diventa davvero nostra estensione. Ci capisce così bene da diventare implicita, invisibile».

«Ma se una tecnologia sparisce dal nostro orizzonte di visibilità sfugge anche a una possibile critica – aggiunge Boccia Artieri –. C'è il rischio di omologarci, di rinforzare abitudini e comportamenti e tagliare fuori una parte della casualità delle nostre vite». Conferma Giuseppe Iacono, fondatore di Stati Generali dell'Innovazione: «I sistemi predittivi ci conducono verso comportamenti prevedibili perché definiti di fatto da algoritmi. Questo porta alla costruzione di comportamenti omogenei, con effetti non dissimili da quelli (deprecati) della tv, invertendo in modo totale la logica della differenziazione tipica del web». Soluzioni possibili? Molti suggeriscono norme che rafforzino il diritto degli utenti a controllare i propri dati. Una proposta di legge californiana voleva essere la prima a sancire il diritto dei cittadini a sapere tutto ciò che le aziende conoscono di loro. Come è andata a finire? È stata affossata dalle critiche dell'industria hi tech.

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