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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:26.

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di Luca Tremolada
La metafora è elementare, fin troppo. I chip sono il cervello, sensori e touch screen sono il sistema nervoso, le telecamere gli occhi e il microfono le orecchie. Ecco il perceptual computing, l'evoluzione secondo Intel, del personal computer. Quella del più grande produttore al mondo di chip non è una piattaforma o un prodotto ma una visione. Un computer che nasce dall'indagine sulle applicazioni delle percezioni umane nell'information technology. Vale a dire un computer vivente, affezionato, non più solo "personale" ma "percettivo". «Attualmente non c'è una relazione umana con il nostro laptop - spiega a Nòva24 Paul Tapp, senior product manager di Perceptual Computing per Intel -. Siamo da sempre abituati ad aprire un portatile e interrogare database o usare motori di ricerca attraverso una tastiera e un mouse. Continueremo a farlo a lungo intendiamoci - tiene a precisare il manager di Santa Clara - ma la potenza dei processori, l'evoluzione degli algoritmi e i sensori possono trasformare il nostro pc in un compagno in grado di percepire le intenzioni degli utenti». Cioè? «Gli potremo parlare e lui non solo ascolterà e capirà ma saprà connettere i nostri input a alle informazioni che conoscerà di noi».
L'immaginazione gioca brutti scherzi. Il pensiero va subito al cervellone Hal 9000 di "2001 Odissea nello Spazio" in formato portatile, con l'occhietto sempre acceso sopra lo schermo del laptop e un microfono che ascolta tutto. L'idea di Intel è però meno fantascientifica e più industriale. Il gigante dei chip ha ambizioni egemoniche. Ha messo in campo investimenti per 100 milioni di dollari, stretto accordi, distribuito manuali e pacchetti per lo sviluppo software di applicazioni (Sdk), impegnando numerosi laboratori in giro per il mondo. Tutto questo per dare forma e sostanza al computer percettivo. I maligni hanno interpretato le mosse del numero uno al mondo di chip per pc come il tentativo (disperato) di mantenere rilevante il mercato dei personal computer da tempo in declino anche per il successo di smartphone, tablet e device mobile. Ma il disegno del nuovo ceo di Intel Brian Krzanich ha un orizzonte più ampio. Mettersi alla testa di un ecosistema di startup e imprese capaci di sviluppare software, interfacce per l'interazione gestuale e applicazioni di realtà aumentata per gli Ultrabook di Santa Clara. Ma non solo: entro il 2015 saranno oltre 15 miliardi i dispositivi connessi in Rete, un terzo dei quali saranno sistemi intelligenti in grado di gestire e conservare grandi quantitativi di dati. La leadership in questo campo significa mettere le mani su internet delle cose e su una fetta dei big data, un business difficilmente calcolabile.
In pratica, basta unire i puntini, connettere e migliorare tecnologie esistenti su cui si lavora da anni come il riconoscimento facciale, del corpo, della voce. In teoria però dotare di senso (e sensi) le piattaforme significa consegnare alle macchine un pezzo di noi.
Lo hanno capito alla Microsoft che hanno cominciato a praticare il "perceptual computing" con Kinect quattro anni fa. La periferica che riconosce voce e movimento del corpo è stata finora una delusione sul fronte ludico ma ha rappresentato una rivoluzione su quello dell'interazione uomo-macchina. Nelle università il gadget per videogame è stata usato massicciamente per sperimentare nuove interfacce. Tanto da convincere gli ingegneri di Redmond a migliorarlo pesantemente per Xbox One, la nuova console di videogiochi che uscirà a novembre. Il sensore è tre volte più potente, le riprese sono in Hd, anche le "orecchie" di Kinect sono più sensibili. Il nuovo device può addirittura vedere nel buio, e in un primo momento sembrava impossibile poterlo spegnere. Il sospetto di essere osservati mentre si gioca davanti al televisore ha sollevato proteste in rete tanto da indurre Microsoft a precisare che i dati «non lasceranno Xbox One senza un permesso esplicito dell'utente». Questo accadeva prima dello scandalo Datagate, ovvero prima della scoperta di una sorveglianza di massa del Governo americano sui cittadini. Da Apple a Facebook, tutti i big chiamati in causa hanno negato di aver concesso l'accesso ai propri dati alla National Security Agency (Nsa), l'agenzia di intelligence degli Stati Uniti al centro del caso Prism. Ma il sospetto rimane. Anzi, è rimasto. Tanto da indurre anche il capo di Apple Tim Cook a fornire rassicurazioni sul lettore di impronte digitali incorporato nei nuovi iPhone. «L'informazione della vostra impronta non finirà da nessuna parte: su nessun software», ha promesso pochi giorni fa. Tocca credergli ma per i "fanatici" della privacy non si prospetta nulla di buono. I computer avranno occhi e orecchie. Gli algoritmi nei social network sapranno sempre di più su di noi. I telefonini hanno cominciato a prendere le impronte digitali. Diciamo che si sono portati avanti.
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