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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2013 alle ore 08:28.

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Comunque le si guardi, si trovano in territori di confine: le startup sociali sono in espansione in Italia, come in Europa. Con impatti diffusi e forti sulla vita di milioni di cittadini e sull'economia. «In molti casi intercettano bisogni tradizionali, acuiti dalla crisi. Pensiamo a tutti gli ambiti del welfare a tariffe calmierate, dei disabili, del riuso degli oggetti» spiega Davide Agazzi, mentor di Make a cube, incubatore di imprese ambientali e sociali. «Oppure rispondono a bisogni emergenti, a nuovi stili di vita. Pensiamo ai fornitori di servizi online legati ai consumi con forte componente sociale o ambientale». Per esempio, i consumi e i servizi legati al biologico.
«In questo momento c'è fermento nella rigenerazione di strutture sottoutilizzate o di luoghi abbandonati. O al loro cambio di destinazione d'uso: pensiamo al recupero delle cascine milanesi, per esempio - osserva Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network - E ancora il fenomeno di beni confiscati che vengono trasformati, non solo al Sud».
Nonostante la ricchezza e la varietà delle attività, nessuna legge è riuscita finora a comprendere il settore, né a valorizzarlo. Non c'è riuscita la legge sull'imprenditoria sociale del 2005, criticata da più parti e di cui si chiede una revisione. Né il decreto Crescita Bis sulle startup innovative che ha pur previsto la tipologia di startup «a vocazione sociale», ma ha posto stretti requisiti tecnologici. Di fatto su 1.080 neoimprese iscritte all'apposito registro della Camera di Commercio e che avranno quindi diritto agli incentivi (ancora bloccati) solo una può dirsi certamente sociale: è la Rare Partners Srl Impresa sociale, che si occupa dello sviluppo di farmaci per le malattie rare. Andando invece ad analizzare il contenuto dell'attività si possono stimare quante delle startup innovative operino in settori «di rilievo sociale». E qui la rilevazione di Aiccon ne conta 203 nella ricerca e sviluppo, 24 nella attività editoriali, culturali, artistiche e creative, 9 nell'istruzione, due nella sanità e assistenza sociale. In tutto si tratterebbe del 22% delle startup innovative. Restano non identificabili ampi settori crescenti come le piattaforme web collaborative, dal car sharing al riuso degli oggetti, che rispondono a bisogni sociali crescenti come testimonia il boom della sharing economy.
Questi ambiti, insieme alla creatività e alla cultura, sembrano tra i settori più vitali come testimonia la partecipazione ai premi e concorsi come Che Fare, Changemakers for Expo 2015, Make a change-Il più bel mestiere del mondo, Premio Gaetano Marzotto. E le opportunità si estendono agli acceleratori, agli incubatori e agli spazi di coworking, dalla rete nazionale di The Hub all'esperienza milanese di Piano C.
Il mercato dei capitali, invece, è ancora immaturo. Il crowdfunding ha diverse realtà (Fund for culture, la Rete del Dono, BuonaCausa) ma ancora non ha numeri sostenuti. La parte del leone continuano a farla le fondazioni ex bancarie e le fondazioni private. In questo momento tutti guardano all'impact investment. Nei mesi scorsi il Fondo europeo degli investimenti (Fei) ha annunciato un fondo di fondi per finanziare imprese sociali. Il capitale iniziale di 60 milioni di euro andrà a stimolare la nascita di fondi in diversi paesi europei, compresa l'Italia. Al di là del semplice ritorno finanziario questi fondi punteranno al ritorno sociale, che il Social Impact Accelerator promette di misurare attraverso nuovi strumenti metrici che Eif ha messo a punto. E che potrebbero diventare un interessante punto di riferimento per un settore che ha bisogno di verificare l'efficacia degli interventi. Su questo versante l'ultima nata in Italia è Fondazione Lang che a novembre lancia il primo corso di impact investing.
alessia.maccaferri@ilsole24ore.com
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