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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2013 alle ore 15:18.

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Public by defaul: la privacy è negoziabile ma più viva che mai

Era inevitabile. Un distretto scolastico di Glendale, una cittadina nella contea di Los Angeles nella California del Sud, ha iniziato questa estate a monitorare i propri studenti anche quando non sono in aula. Hanno firmato un accordo con la startup Geo Listening che di mestiere monitora post, tweet e feed. In base al contratto si impegna a leggere le attività degli studenti sui social network per avvertire l'amministrazione scolastica in caso di bullismo, insulti o tracce di malessere psicologico.

Ufficialmente ficca il naso su Facebook, Twitter e compagnia cantante per il bene dello studente. Ufficiosamente preserva il capitale umano, evita che la migliore gioventù si possa mettere in cattiva luce, magari davanti a un responsabile del personale di una grande azienda, per quello che ha detto o postato sui social network in un momento di defaillance. Formalmente è un sorvegliante benpensante.
«Siamo di fronte a un paradosso - commenta Antonio Casilli professore associato di Digital Humanities presso il Paris Institute of Technology (Paris Tech) intervenuto nei giorni scorsi come relatore agli Internet Days di Milano - se per educare i giovani a difendere la loro privacy, l'amministrazione scolastica deve spiarli. Questa vicenda mostra che la concezione tradizionale della privacy ereditata dalla giurisprudenza anglosassone, la privacy come right to be left alone, come diritto di essere lasciati in pace, è diventata disfunzionale. Perché esista, si devono sorvegliare gli individui sui social network? Non mi sorprende che le famiglie e gli studenti si oppongano».

Ma si oppongono? O per meglio dire c'è ancora qualcuno che dopo il datagate si stupisce. Curiosamente lo Stato della California ha adottato il 23 settembre scorso una legge sul «diritto all'oblio digitale». È una legge che garantisce ai minori di poter cancellare foto, post o messaggi se ritengano che questi portano danno alla loro reputazione o identità. È una misura che incontra il favore popolare. Da una parte perché non infantilizza, ma anzi responsabilizza gli utilizzatori di internet. Dall'altra perché permette giustamente di portare avanti una concezione della privacy più moderna, la privacy come negoziazione. Questa è una nozione più coerente con il bisogno degli utilizzatori attuali di decidere cosa mostrare di sè, a chi, e per quanto tempo. È anche più adatta alle interazioni sui social network, spiega il professor Casilli, impegnato in questi mesi a scrivere per la casa editrice Spinger «Against the Hypothesis of the End of Privacy». In breve: «Siamo passati dalla privacy come diritto alla solitudine alla privacy come negoziazione sociale».

Intellettuali come Casilli sono voci fuori dal coro. Da un punto di vista tecnico e politico da almeno cinque anni come utilizzatori di internet facciamo fronte a un discorso una retorica diffusa che la vita privata è finita. L'intuizione primogenia la ebbe nel 1999 Scott McNealy, visionario e chief executive officer di Sun Microsystems. L'amatissimo (in Italia) Eugeny Morozov studioso di origine bielorusse e fustigatore della favola bella di internet ha a più riprese celebrato al fine della privacy ma solo per mettere a nudo la natura di internet come infrastruttura digitale decentrata e gestita su base commerciale. Come luogo di scambio dei nostri dati personali in cambio di servizi gratuiti o a basso costo. «La scelta tra la dimensione pubblica e quella privata ci sta sfuggendo di mano», ha scritto il sociologo di origine polacche in «Liquid Surveillance: A Conversation». La tesi di fondo è che non siamo più interessati alla nostra privacy. Il diritto alla riservatezza è ormai un bene negoziabile. Avrebbe vinto Mark Zuckerberg, «public by default», il pubblico è la nuova norma sociale.
«Nulla di più falso, protesta l'intellettuale di origini italiane - i dati personali sono risorse naturali».

Non tutto però è perduto. Al public by default l'Europa sta rispondendo con la privacy by design. Il regolatore europeo ha in mente una riforma della privacy diversa dalle sensibilità dei paesi anglofoni. Il commissario Viviane Reding vuole regole europee omogenee che pongano il consenso come passaggio obbligato alla cessione consapevole dei nostri dati. Nei giorni scorsi a Varsavia i Garanti della privacy di tutto il mondo si sono chiusi in una stanza e hanno partorito otto risoluzioni e una dichiarazione sulla «appificazione» della società. Prima di darsi appuntamento alla prossima conferenza alle Mauritius hanno preso atto dell'invasione delle app nei dispositivi mobili nella vita quotidiana e hanno suggerito che le risposte vanno individuate nell'educazione degli utenti che devono poter richiedere il controllo dei propri dati. Gli sviluppatori devono imparare a tener conto dei requisiti di privacy fin dalle fasi iniziali di messa a punto di un'app. Così come ai fornitori di sistemi operativi spettano precise responsabilità. Tutto corretto, lapalissiano.

Tuttavia, per quanto gli organi sovranazionali abbiano chiaramente un ruolo cruciale è l'utente il miglior sorvegliante di se stesso. La teoria migliore è di Cory Doctorow, autore del libro «Little Brother» e prima penna del blog Boing Boing. La nostra indifferenza per la gestione della privacy è dovuta al fatto che le conseguenze delle violazioni della stessa sono separate da un enorme lasso di tempo e di spazio rispetto alle violazioni stesse. Non sappiamo che uso faranno dei nostri dati, non ne stiamo pagando il prezzo, ammesso che ci sia qualche cosa da pagare. Quel giorno, per Doctorow verrà presto. Nel frattempo, per tutti il consiglio è cominciare a imparare a leggere i termini di servizio dei social network. Quelle scritte piccole piccole che appaiono prima di accedere al servizio. Sono piccole piccole. Era inevitabile?

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