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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2013 alle ore 19:29.

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Dublino (Corbis)Dublino (Corbis)

Anche le città imparano. Ma non bastano i dati accessibili e le autostrade informatiche della smart city per assicurarci un futuro migliore. Rendere intelligenti i grandi centri storici è solo il punto di partenza. Una vera learning city ha bisogno, in più, di un atteggiamento nuovo da parte di chi ci abita. L'apertura all'apprendimento, la disponibilità a non chiudere mai il libro della conoscenza saranno fondamentali per affrontare le sfide imposte dall'allungamento della vita umana e dall'esplosione demografica.

«La città è un contesto ideale per la produzione e lo scambio di conoscenze». Questo fatto ci tornerà comodo, sostiene Norman Longworth, in un mondo dove il moderno homo civicus è ormai prevalente e cresce al ritmo di 65 milioni di individui l'anno, come 7 nuove Chicago alla volta. Per Longworth, il guru del lifelong learning, «nelle città contemporanee la formazione continua, lo sviluppo del potenziale umano e sociale, costituisce un importante strumento di crescita». I casi virtuosi di Dublino, Kaunas e Swansea, che hanno trasformato l'apprendimento continuo in un volano di crescita, stimolando la partecipazione dei cittadini allo sviluppo di nuove iniziative economiche e sociali, lo dimostrano. Longworth racconterà la sua esperienza al FutureForum di Udine, una rassegna sull'innovazione e il futuro che per cinque settimane, fino alla fine di novembre, s'interroga sugli scenari in evoluzione da qui a una ventina d'anni. Come cambieranno i saperi, la scuola, la formazione, i media e le tecnologie che ci mettono in comunicazione? Come cambieranno le città, i centri storici, i modi dell'autogoverno, le forme collaborative?
Già oggi, la metà urbana dell'umanità produce oltre l'80% della ricchezza globale. Ma consuma anche l'80% dell'energia. Megalopoli come San Paolo, Il Cairo o Shanghai, diventano sempre più dense e le campagne sempre più vuote. A ogni nuovo disastro che le colpisce, si dice che ci vogliono strategie nuove. Per questo abbiamo bisogno dell'efficienza della smart city e anche della conoscenza della learning city. Rendere scorrevoli i flussi di persone, energia e informazioni è importante. Ma bisogna anche sviluppare alleanze fra i vari settori della città, per un buon utilizzo delle risorse, motivare i cittadini a mettere in comune i propri talenti e promuovere la creazione di ricchezza attraverso lo sviluppo della capacità imprenditoriale, come si legge nel manifesto delle città che apprendono, presentato all'ultimo congresso del l'Unesco Institute for Lifelong Learning, a Pechino. Una città dove la popolazione che non ha sete di conoscenza diventa più fragile. «Per rispondere attivamente alle sfide della sostenibilità, dell'invecchiamento, dei flussi di migranti che cercano una vita migliore, è essenziale fare in modo che i cittadini continuino a mantenersi al passo con le conoscenze più recenti», insiste Longworth, che si è occupato per vent'anni di gestione della formazione per Ibm e ora cerca di applicare alla società civile le metodologie già note e praticate in tutte le multinazionali del mondo per stimolare i propri dipendenti a tenersi al passo.

In azienda si chiama «aggiornamento professionale»: perché non trasferirlo sul territorio urbano? Non è pensabile che un cittadino di 60 anni del mondo industrializzato non sia in grado di utilizzare fluidamente gli strumenti informatici che ha a disposizione, eppure capita. Non è pensabile che vaste schiere di persone, soprattutto fra gli anziani, conoscano solo una lingua, quella che hanno imparato da bambini, e non siano in grado di comunicare con molti loro concittadini immigrati. Eppure è così. «Si tratta di pensare alla diffusione di contenuti di sapere che siano rivolti a tutti in quanto individui attivi e partecipi della vita di comunità, in quanto cittadini responsabili del proprio apprendimento, per una migliore convivenza sociale. Si tratta di mettere in comunicazione i giovani con gli anziani, per stimolare lo scambio di conoscenze, consolidare e riqualificare competenze, attitudini e abilità, in particolare attraverso le tecnologie informatiche», spiega Longworth. Sembrano concetti teorici, ma con un paziente lavoro a livello di enti locali si possono trasformare in realtà. «Lanciare ponti fra università, scuole, amministrazioni pubbliche e istituzioni sanitarie è il primo passo», ricorda Longworth e confessa che nei successi migliori, come il caso della lituana Kaunas, dove schiere di anziani studiano le lingue all'università, molto dipende da singole personalità forti, disposte a impegnarsi in prima persona. «Sono decisive, poi, le reti di scambio fra diverse amministrazioni comunali, dove si possono imparare le buone pratiche già sperimentate», aggiunge. Grazie all'iniziativa dell'Unesco, gli scambi coinvolgono ormai municipalità di tutto il mondo, soprattutto in Estremo Oriente: «In Cina e in Corea si stanno costruendo le politiche più interessanti a favore dell'apprendimento continuo, soprattutto nelle grandi città come Pechino e Seul».

L'ostacolo più grande per una learning city? «La frammentazione». Una città, un territorio, per funzionare al meglio, ha bisogno di un approccio olistico, mentre spesso i vari dipartimenti dei governi locali si muovono a compartimenti stagni. Questo è il grande intralcio anche per una smart city, dove l'incrocio dei dati è essenziale. L'intelligenza non sopporta i confini.

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