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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2013 alle ore 08:41.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:05.

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Quando nascono le licenze Creative Commons (CC), la mission evidente è quella di trovare delle forme alternative, o quantomeno differenti, al pubblico dominio (Pd) e al copyright (C) che prevede la formula "Tutti i diritti riservati". Assecondando un certo modo di intendere soprattutto Internet e lo scambio di dati che lì avviene, nel 2001 Lawrence Lessig crea Creative Commons, proponendo un modello "Alcuni diritti riservati" e creando così un "movimento" e una comunità internazionale che si riconosce nella libera circolazione dei saperi, pur nel mantenimento di alcuni diritti d'autore.

Basti ricordare gli esempi di Linux, il sistema Gnu e la Free Software Foundation o di Wikipedia, per capire l'impatto avuto dai Creative Commons nell'accompagnare lo sviluppo di internet. La scorsa settimana sono stati pubblicati i Creative Commons 4.0, frutto di un lavoro partecipato e internazionale, costato due anni di lavoro e che ha preso il via dal primo Creative Commons Global Summit tenutosi a Varsavia nel 2011. Lì, in sessioni tematiche ad hoc sui temi principali, sono state lanciate le basi di questa nuova licenza che ha alcune caratteristiche molto particolari.

Innanzitutto si tratta di uno standard internazionale: per la prima volta non viene editato il testo inglese basato principalmente sulla giurisdizione statunitense che poi viene tradotto in diverse lingue e adeguato ai diversi statuti e clausole nazionali. Bensì il lavoro è stato quello di far convergere in una bozza unica iniziale le varie specificità nazionali e inglobarle in uno standard su cui lavorare. Un lavoro che ha permesso, quindi, già a monte uno scambio interessante tra le varie clausole nazionali, e inoltre ha prodotto un testo più semplice e accessibile. Come spiega Federico Morando, lead di Creative Commons Italia, «convergere su un'unica licenza è stata un'esigenza di semplificazione ma anche una risposta all'invasione di dati che si sta sempre più registrando in rete». Una licenza unica che risultasse «molto più capace di gestire qualsiasi contenuto digitale complesso, dove il confine tra testo, immagine e dato e sempre più labile, tanto che qualsiasi sito minimamente articolato è oggi organizzato (dal punto di vista informatico) sotto forma di database relazionale».

La licenza unica, nei progetti di Creative Commons, dovrebbe agevolare «le istituzioni (pubbliche e non) che vogliano pubblicare i propri dati come Open Data, ma anche per ricercatori e community che desiderino condividere i risultati di esperimenti, survey, piattaforme online». «Di fronte a diverse licenze - prosegue Morando - molte istituzioni avevano dubbi se fossero adatte o meno. Inoltre essendo inoltre molto specifiche per i dati erano poco usate e quindi risultavano spesso oscure. Questo ha portato al risultato di una proliferazione di licenze». Il caso della Gran Bretagna è emblematico: «Tra i primi a interessarsi in maniera seria agli Open Data, si scontra con il fatto che le licenze Creative Commons non gestivano adeguatamente la norma europea del diritto sui generis sulle banche di dati (ovvero una sorta di copyright speciale per questo tipo di beni immateriali), costringendo così il governo a trovare altre strade. Open Knowledge Foundation ha proposto Open Data Commons, che però risulta poco conosciuta; si è deciso allora di crearne una nazionale, la Open Government License, e così a ruota faranno molti altri paesi come l'Italia con l'Italian Open Data License.

I CC 4.0 voglio essere proprio una risposta a questo problema: «Una risposta che in qualche modo l'Europa si aspettava da Creative Commons: una licenza che risolve molti problemi relativi alla pubblicazione di Open Data». Una risposta, infatti, che arriva nel momento in cui l'Europa decide che le Istituzioni Pubbliche devono essere open e devono quindi rendere pubblici i propri dati, a patto di rispettare il copyright di terzi e i vincoli di privacy. Per Morando «i Creative Commons 4.0 rispondono pienamente alle richieste Ue perché offrono uno standard internazionale per gestire Big e Open Data. La privacy invece è fuori dal discorso». Proporre un testo unico che riunisca privacy e copyright è impensabile, nonostante qualcuno ci abbia provato. Secondo Morando la privacy «deve essere affrontata con altri strumenti, magari con informative e note da affiancare alle licenze». Lo snodo fondamentale è che all'invasione di dati che le norme europee stanno liberando, i Creative Commons forniscono una risposta forte, pratica ed efficace. Il testo in inglese è già pubblico, ora si stanno avviando le fasi di traduzione nelle diverse lingue. Anch'esse seguiranno un processo di revisione, ma prima della primavera l'Italia, così come i paesi più grandi, avranno anche loro le nuove licenze Creative Commons 4.0 e si capirà se davvero lo sforzo fatto porterà - come si augura Morando ed evidentemente tutta la community Creative Commons - al convergere di varie istituzioni su una licenza unica.
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