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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2014 alle ore 11:45.
L'ultima modifica è del 07 gennaio 2014 alle ore 11:57.

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Dei Big data e del loro infinito potenziale se ne parla ormai da mesi, ma l'interpretazione piuttosto fumosa che se ne ha, viaggia in parallelo al modo ancora poco lineare con cui se ne fa uso. Procediamo per gradi.

Cosa sono i Big data
Sono ciò che il nome indica, ovvero una mole consistente di dati, articolati in strutture complesse soprattutto perché non omogenei: possono farvi parte immagini, testo, coordinate geografiche e tutta una serie di informazioni raccolte da un'infinità di fonti quali uffici di statistica, social network e amministrazioni pubbliche.

A cosa servono
Gli scopi sono molteplici e apparentemente senza limiti: si possono usare per fare previsioni di svariata natura, anche e non solo sugli andamenti borsistici o sull'espansione di epidemie. La Cia, nel 2011, ha affermato di scandagliare i social network alla ricerca di segnali che lasciassero presagire moti intestini. Nel 2010 la Indiana University ha condotto uno studio attraverso il quale è stata tracciata una correlazione tra l'andamento del Dow Jones e i presentimenti e gli umori percepiti dagli account Twitter degli operatori di borsa. Il fatto che l'analisi dei Big data permetta questo e altro fa passare in secondo piano l'attendibilità di questo studio.

E qui nasce il problema
La raccolta dei dati, la loro archiviazione, così come il loro formato e gli strumenti utili alla correlazione delle informazioni (quindi la loro interpretazione e visualizzazione) sono per lo più un cantiere aperto in cui i lavori appaiono piuttosto scoordinati. Servono standard e regole condivisibili per poterne trarre l'enorme potenziale e farne il giusto uso. Il volume dei dati, spinto dai dispositivi mobili, aumenta senza soluzione di continuità. Sono proprio i fornitori di servizi e applicazioni quelli che ne fanno un grande uso; vengono utilizzati per capire quali sono le attitudini degli utenti (che in molti casi sono clienti) e migliorare così l'esperienza d'uso offerta.

La regola aurea delle 3 V e il business intelligence
Il processo che conduce dalla raccolta dei dati al loro utilizzo deve tenere conto del Volume che questi generano, della loro Varietà e della Velocità con cui devono essere archiviati e reperiti; aggiungere il parametro del Valore (che porta a 4 il numero delle V espresse dalla regola) assume un senso giacché i dati devono essere attendibili e utilizzabili anche a fini commerciali. Un esempio decisamente buono è quello di AT&T, la più grossa compagnia telefonica americana, che oggi fa largo uso dei Big data e che, nonostante manchi ancora uno standard, si sta dando molto da fare. Per esempio utilizza un database con 1,9 trilioni di dati relativi alle conversazioni dei propri clienti per poi proporre loro una serie di tariffe vantaggiose relativamente all'uso che fanno del cellulare. L'analisi dei Big data influenza quindi le decisioni strategiche e le scelte "business critical".

La situazione in Italia e nuove figure professionali
L'Italia è sensibile alla liberazione dei dati così come alla trasparenza che questa comporta; ne è buona prova l'Open Data Day tenutosi a fine febbraio del 2013 (il prossimo evento è previsto per il 22 febbraio 2014), un laboratorio pieno di contributi e di idee proattive per la creazione di standard. Flavia Marzano, professionista attiva sul fronte della Pubblica Amministrazione, si è particolarmente spesa per fare trasparire il messaggio più opportuno, ovvero quello che la sensibilità delle PA aumenta: nel 2012 – a fronte di un sondaggio – solo il 7% dei pubblici uffici sosteneva di avere coscienza dell'importanza della liberazione dei dati. Oggi il portale «I dati aperti delle PA» contiene 170 applicazioni diverse e offre la possibilità ai cittadini di segnalare set di dati.

La situazione è ancora più effervescente sul fronte delle aziende private. L'Osservatorio del Politecnico di Milano ha resi pubblici, a dicembre 2013, i risultati di una ricerca secondo cui sempre più aziende sono disposte (+22%) ad investire nelle tecnologie utili al trattamento e all'uso dei Big data mentre, nel contempo, sale la domanda di figure professionali capaci di decifrare correttamente i dati e coadiuvare il management nelle scelte. Delle 184 aziende intervistate il 76% sostiene di fare uso di strategie "Basic Analytics", percentuale che si dimezza (36%) tra quelle che fanno uso di sistemi avanzati per l'analisi cosiddetta "predittiva". I dati strutturati, quindi più facili da analizzare, sono quelli a cui le aziende italiane fanno maggiormente ricorso, ma fa ben sperare che un'azienda su sei che fa uso di Big data punti ai dati destrutturati (o parzialmente strutturati) tenendo quindi un occhio aperto sulle informazioni che si possono raccogliere sulle reti sociali, sui blog e su altre fonti per cercare di misurare e anticipare i bisogni del mercato in cui operano. Le difficoltà esistono: a rendere più brullo e nebbioso il paesaggio ci sono l'insufficiente capacità di interpretazione dei dati e il lacunoso assemblaggio di una strategia "social oriented". Altro spazio per figure professionali che possano affiancare le aziende.

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