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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2014 alle ore 08:16.

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Le piante imparano. E ricordano. Niente punti interrogativi alla fine di queste frasi, perché non si tratta più di teorie, ma dei rivoluzionari risultati di un esperimento internazionale a guida italiana, condotto al Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (Linv) dell'Università di Firenze in collaborazione con l'University of Western Australia e pubblicati pochi giorni fa dalla rivista scientifica «Oecologia».
L'esperimento, durato tre mesi, è stato condotto da Monica Gagliano con Stefano Mancuso (direttore del Linv), Michael Renton e Martial Depczynski su piante di mimosa pudica, un arbusto che ha la caratteristica di chiudere rapidamente le foglie quando queste vengono toccate o stimolate in altro modo.
«La domanda iniziale era semplice – spiega Gagliano, ecologa evoluzionista, nata a Torino ma trasferitasi in Australia per le sue ricerche –, le piante possono apprendere come fanno gli animali? La cosa difficile invece è stata capire come impostare l'esperimento, dato che nessuno aveva mai studiato prima niente di simile. Alla fine abbiamo deciso di applicare alle piante il modello che si usa per gli animali, dove l'apprendimento e la memoria sono già studiati da molti anni: i comportamenti che volevamo verificare erano in fondo gli stessi, quindi sarebbe stato forzato e poco chiaro usare per le piante strumenti diversi da quelli già esistenti e messi a punto per lo studio dell'apprendimento animale».
L'esperimento è presto detto: servendosi di mimosa pudica, Gagliano e Mancuso hanno costruito un apparato che consentiva di sottoporre i vasi a cadute controllate, da un'altezza di circa quindici centimetri, che non causavano alcun danno alla pianta. «Abbiamo così verificato che le piante, che inizialmente chiudevano le foglie a causa di questa sollecitazione esterna – continua Gagliano – dopo un certo numero di ripetizioni non le chiudevano più. La caduta infatti non aveva conseguenze pericolose, e chiudere le foglie è energeticamente dispendioso, per cui quando la pianta impara a riconoscere lo stimolo, evita di sprecare energia per difendersi da esso. Ripetendo a distanza di tempo queste cadute, abbiamo anche verificato che le piante ricordano quello che hanno appreso e riconoscono lo stimolo per un lungo periodo, che arriva fino a trenta giorni». Le piante insomma imparano e ricordano.
Ma come accade? «Ancora non lo sappiamo, ma del resto non l'abbiamo capito neanche per gli animali e per l'uomo. Anzi, una delle teorie più interessanti è quella che ipotizza per l'uomo la presenza di una memoria distribuita. Quindi di una memoria non basata sul solo cervello, ma che risiede anche in altre parti del corpo. Se questa teoria fosse verificata, dimostrerebbe che da questo punto di vista siamo esattamente come le piante». Un'ipotesi, quella di una marcata somiglianza tra l'uomo e le piante, che non incontra affatto favori: «Quando inizi a chiederti se le piante apprendono o ricordano, in ambito accademico la maggior parte delle persone si mettono a ridere, o proprio non ti salutano più. La storia dell'articolo sul nostro esperimento è emblematica: prima di essere pubblicato da "Oecologia", è stato rifiutato da ben tredici riviste internazionali. La maggior parte però non l'ha neanche mandato in revisione, quindi non ha neanche considerato l'idea di farlo valutare in modo scientifico. Una addirittura l'ha mandato a uno psicologo! Nessun commento sui dati: le risposte che ricevevamo contestavano tutte un presunto antropomorfismo della ricerca, e l'uso del termine "apprendimento". Se lo avessimo eliminato, avremmo pubblicato l'articolo due anni fa e su riviste ancora più prestigiose. Ma quello era il punto di partenza del nostro lavoro: se i criteri di investigazione sono comuni e se la pianta soddisfa lo stesso criterio di un animale, non è necessario inventare termini nuovi per descrivere lo stesso processo. Si tratta sempre di apprendimento».
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