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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2014 alle ore 15:21.
L'ultima modifica è del 10 marzo 2014 alle ore 09:36.

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Pavel Durov è l'alter ego di Mark Zuckerberg. Da quando Facebook ha acquisito Whatsapp il suo servizio di instant messagger Telegram è stato preso d'assalto. In rete si era diffusa la paura che l'app pagata 19 miliardi di dollari sarebbe diventata una casa di vetro per investitori pubblicitari e inserzionisti sul modello Facebook. Un black out di alcune ore avrebbe poi peggiorato la situazione stimolando una mini-diaspora di utenti verso l'applicazione del programmatore 28enne di origine russa che ha subito cavalcato l'onda. In 24 ore in 5 milioni hanno scaricato Telegram. Per Zuck 5 milioni sono bruscolini tuttavia, alla prima uscita pubblica al Gsm di Barcellona ha colto subito l'occasione per ribadire che avrebbe lasciato Whatsup indipendente. Nel frattempo Durov su Twitter e sul suo sito ricordava: «Telegram non è pensato per produrre profitti, non venderà mai pubblicità e non accetterà mai investimenti esterni. Non è in vendita. Non stiamo costruendo un database ma un programma di messaggistica per le persone».

In realtà di Telegram piace la protezione della privacy. Il servizio consente di effettuare chat segrete tra due persone, usando una crittografia. I messaggi non vengono conservati sul server, ma rimangono sugli smartphone degli utenti. Come chioserebbe Cory Doctorow, finalmente piace l'anonimato. L'autore di «Little Brother» e militante per i diritti digitali aveva previsto che il Grande Fratello avrebbe generato conseguenze. L'affare Prism, il sistema usato dalla Nsa per raccogliere dati sui cittadini americani e internazionali senza mandato della magistratura, intercettando messaggi di posta elettronica, chat, video, fotografie ha prodotto come prima conseguenza tangibile una nuova generazione di prodotti anti-intercettazioni. Con 49 dollari su internet chiunque può portarsi a casa Safeplug, una scatola che una volta collegata al router, agisce come un proxy e costringe tutto il traffico internet dell'utente a passare sul network Tor.

A Barcellona, uno dei protagonisti è stato Blackphone, battezzato il primo smartphone anti-Nsa. Per 455 euro circa si ha la possibilità di di navigare online e comunicare in maniera sicura (si legga l'articolo a fianco). Per dieci dollari al mese la startup Wireover installa sul tuo computer una app, che permette lo scambio e il trasferimento illimitato di immagini, video, audio, documenti sensibili, e file di grandi dimensioni, da un computer all'altro, senza che nessuno, all'infuori del mittente e destinatario, possano accedere ai contenuti. I venture capital sono certi che a breve l'azienda troverà nuovi investitori. Un'altra startup fondata da un ex di Google ha un nome che è tutto un programma: Disconnect si inserisce all'interno di un ricco filone di programmi amici della privacy che bloccano le pubblicità, cancellano i cookies e permettono di surfare senza essere rilevati. Ma, a differenza degli altri servizi, questo promette di rivelarti in tempo reale chi e come sta prendendo informazione da noi.

Non mancano naturalmente gli eccessi. Come ad esempio lo smartphone che si autodistrugge. Un gadget da 007, destinato a un pubblico speciale e specializzato che però ha già un nome: si chiama Boeing Black, ci sta lavorando il colosso aerospaziale Boeing che ha deciso di presentarlo all'Fcc. Più incline alla paranoia è invece l'Anulador Celular prodotto dalla brasiliana Polar. Tecnicamente è un cooler, cioè un contenitore per tenere in fresco la birra. Al suo interno ha però un dispositivo che blocca le connessioni Gps, Gsm, Wireless 3G e 4G nel raggio di un metro e mezzo. Ufficialmente servirebbe per bloccare la sindrome da distrazione da smartphone quando si è al bar. Ufficiosamente potrebbe essere anche usato per rendersi non tracciabili. Paronia a parte, il proliferare di queste soluzioni dimostra però solo che il business c'è. Quello che sta accadendo più che un sintomo di una maggiore consapevolezza dell'importanza dei propri dati personali è il riflesso dell'ingresso sul mercato di una serie di prodotti che utilizzano la crittografia destinati all'utente medio. Come aveva previsto Eric Schmidt, presidente di Google: contro la sorveglianza di massa da parte dei Governi, serve che anche la crittografia diventi di massa. Più della Nsa però chi dovrebbe essere preoccupato sono le aziende che su internet e sui nostri dati ci campano. Se in rete smettiamo di essere l'espressione tracciabile delle nostre abitudini di consumo diventiamo meno interessanti per gli sponsor che vogliono vendere prodotti. Se, per meglio dire, usciamo dal radar, social network e motori di ricerca saranno meno attraenti per la pubblicità.

In realtà questa ondata emotiva post-datagate è ben lungi dall'impensierire i giganti del web. Se è vero che la privacy su internet non può più essere concepita come diritto di stare da soli, è altrettanto certo che il «public by default», il pubblico come nuova norma sociale di Mark Zuckerberg non ha culturalmente vinto. Come spiega bene Antonio Casilli, professore associato di Digital Humanities presso il Paris Institute of Technology (Paris Tech), nel suo saggio «Against the Hypothesis of the End of Privacy», il diritto alla riservatezza è ormai un bene negoziabile. Una scambio sempre più consapevole tra chi detiene i diritti (gli utenti) e chi possiede le piattaforme online. Cessione di dati contro servizi. Il prezzo lo decide il mercato. Anzi, lo ha deciso una startup. Datacup con sede a New York City offre 8 dollari al mese (70 euro annui) per avere pieno accesso ai dati generati dagli utenti sui propri account social e dalle transazioni online. Sono già 1.500 le persone che hanno scelto di renderli trasparenti come concorrenti del Grande Fratello. Il servizio di compra-vendita sarà aperto a tutti. Nessun inserzionista e nessuna azienda però, almeno per il momento, si è fatta avanti. Il prezzo forse non è quello giusto.

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