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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2014 alle ore 22:28.
L'ultima modifica è del 03 aprile 2014 alle ore 08:50.

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Se l'ascesa di Telegram (il rivale numero uno di WhatsApp) aveva dato una minima speranza a Pavel Durov di diventare l'incubo peggiore di Mark Zuckerberg, le ultime notizie in arrivo da San Pietroburgo ridimensionano fortemente le ambizioni del giovane russo nato a Torino. Se non altro nell'immediato.

Pavel Durov, infatti, non è più il Ceo di VKontakte.com, il social netowrk russo da lui stesso fondato che nel blocco sovietico è più seguito di Facebook. Si è dimesso in tarda serata ieri, proprio con un post su VK nel quale ha spiegato tutte le difficoltà nel condurre liberamente la sua attività di amministratore del sito. Un post carico di amarezza, dove la conclusione (anche se non espressamente detta) pare una sola: ha vinto Putin.

«A seguito di eventi successivi alla variazione della partecipazione di VKontakte nel mese di aprile 2013, - ha scritto Durov sul suo profilo - la libertà del Ceo di gestire l'azienda è stata notevolmente ridotta. Sta diventando sempre più difficile difendere quei principi che una volta erano alla base di questo social network. Dopo mio fratello, che a metà dello scorso anno ha lasciato la carica di direttore tecnico, mi dimetto anche io dalla carica di Direttore Generale di VKontakte . Grazie a tutti gli utenti che hanno sostenuto e mi hanno ispirato questi sette anni. Continuerò a partecipare a VKontakte, ma le posizioni formali , alle nuove condizioni, non mi interessano. Pavel Durov».

Per capire meglio cosa è successo, però, è obbligatorio partire da qualche anno fa. Durov, ragazzo di San Pietroburgo che per una serie di coincidenze è nato a Torino, ha fondato VK.com nel 2006. Un social network molto simile a Facebook. Quasi un clone. Col difetto, però, che il controllo dei post pubblicati dagli utenti è sempre stato latente. Non è un caso, infatti, che su VK si trovi un po' di tutto, dai film alla musica pirata. Pareva però essere una ventata di libertà, in un Paese, la Russia, alle prese col guinzaglio putiniano che regola l'informazione con metodi decisamente discutibili.

Il gioiellino di Durov è riuscito, dal 2006 a oggi, a collezionare oltre 200 milioni di iscrizioni, diventando di fatto il social network più utilizzato in Russia. Un primato che da un po' di tempo creava fastidi trasversali. Né Putin, né Zuckerberg ne erano contenti, anche se per ragioni diverse. E chissà se oggi, che Durov ha rassegnato le sue dimissioni, a Mosca, come a Palo Alto, sarà scoppiato il buon umore.

Durov fatto fuori per la Crimea
Nelle ultime settimane, il Ceo di San Pietroburgo aveva avuto più di qualche difficoltà a gestire le pressioni russe sul caso ucraino. Dal Cremlino volevano che le pagine legate al leader dell'opposizione Alexei Navalny venissero bannate. Durov ha resistito finché ha potuto, come aveva già fatto negli anni precedenti quando Mosca aveva fatto pressioni elettorali sulla gestione del social network. Dall'aprile 2013 nella società di VK.com era entrata con prepotenza (acquisendone il 48%) la United Capital Partners, un fondo guidato da Ilya Sherbovich, alleato del presidente Putin e membro del Cda della compagnia petrolifera statale russa Rosneft. Così il Cremlino si era assicurato il controllo del Facebook russo. E Durov è riuscito a resistere per un anno.

Qualche settimana fa, da quello che si può apprendere dai giornali russi, il Ceo ha ceduto in gran segreto il suo 12% di VK a Ivan Tavrin, amministratore del gruppo telefonico mobile russo MegaFon, per una cifra di circa 400 milioni di dollari. MegaFon, come da buona tradizione russa, è una compagnia fortemente influenzata dal Cremlino, controllata dall'oligarca russo, Alisher Usmanov, uno degli uomini più ricchi al mondo. Lo stesso 12% finito nelle mani di MegaFon pare sia stato poi ceduto a Mail.ru (altra società in mano a Usmanov) che già possedeva il 40% di VK, portandosi al 52%. Il risultato? È presto detto: VK è in mano al Cremlino. Pavel Durov ha perso la sua battaglia quasi donchisciottiana. Ma attenzione a darlo per spacciato: il ragazzetto di San Pietroburgo è ancora il fondatore e proprietario di Telegram, la App di messaggistica istantanea che sta insidiando le sicurezze di WhatsApp, e stavolta la gestisce in Germania, al riparo dalle influenze putiniane. E poi pare se ne vada in giro con 400 milioni di dollari in tasca. Sicuri che al Cremlino siano del tutto tranquilli?

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