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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2014 alle ore 06:38.

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a Nel 2012 Facebook acquista per un miliardo di dollari il sito photo-sharing Instagram. Lo stesso anno il gigante della fotografia Kodak dichiara fallimento. Il saldo occupazionale segna un più 13 dipendenti (di Instagram) e un meno 145 mila posti di lavoro (di Kodak). «È la digitalizzazione, bellezza», anzi no. E' la “seconda età delle macchine”. E c'è davvero poco da star tranquilli. Sarebbero loro, le nuove "macchine" le responsabili della disoccupazione e della crescente disuguaglianza che sta colpendo le economie sviluppate. Le statistiche pubblicate nell'articolo The Global Decline of the Labor Share sul The Quarterly Journal of Economics (2014) sembrano puntare il dito sulle tecnologie. Come anche lo studio oxfordiano dal titolo eloquente: The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation? si arrischia a prevedere che nei prossimi dieci anni il 47% di tutta l'occupazione Usa sarà sostituita dalle macchine. Il che rende ancora più odioso classico quadretto californiano. Quello con giovani sviluppatori vesiti male e ridanciani che premendo distrattamente qualche tasto dalle loro tastiere producono servizi da miliardi di dollari.
A mettere un po' di chiarezza nei numeri ma sopratutto a dare un po' più di prospettiva alle parole sono intervenuti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee che nel loro citatissimo libro "The Second Machine Age" hanno provato a descrivere le dinamiche della fabbrica del futuro senza voli pindarici e senza la retorica sulle magnifiche sorti progressive e salvifiche delle tecnologie. Ma con una sana dose di realismo, il che ha permesso di sfatare i miti che volevono la globalizzazione e il liberismo come cause prime e uniche dell'impoverimento della classe media e del conseguente tornado occupazionale. Per McAfee e Brynjolfsson è, come spesso accade, una questione di sincronizzazione, come direbbe un informatico. Di armonizzazione tra i tempi delle tecnologie - che in questi anni hanno corso moltissimo - e quelli degli uomini che sono rimasti ancorati ai vecchi sistemi di produzione. In un contesto di questo tipo la fabbrica del futuro non esiste. O almeno ha una geografia diversa da quella a cui siamo abituati. Non è un capannone che nasce fuori dalle città ma è un prodotto, una fabbrica di fabbriche destinata a produrre mercati nuovi animati da software e hardware, da servizi e da ferro. Il boom benefico delle macchine in grado di creare anche nuova occupazione comincia a emergere anche dai grafici. Il Science, Technology and Industry Scoreboard 2013 ha calcolato che le giovani aziende (di meno di cinque anni) rappresenteranno il 20% dell'occupazione nei prossimi dieci anni ma genereranno la metà dei posti di lavoro di nuovi mestieri. La biodiversità dell'indotto della fabbrica del futuro è una certezza prossima ventura. Il presente però è ancora tutto dei dinosauri.

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