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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2014 alle ore 08:12.

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Carlo Alberto Carnevale Maffè
aIn principio era il verbo. Aziendale, imprenditoriale, manageriale. E nella pienezza dei tempi, il verbo si fece tecnologia. E venne ad abitare in mezzo a noi, tra le nostre mani, nelle nostre tasche, perché potessimo contemplarne la grazia delle animazioni in infografica, e non più solo le antiche tavole (di Power Point).
Ci vuole un incipit giovanneo, corredato da un latinissimo si parva licet, per preparare i lettori all'affascinante viaggio interdisciplinare proposto da Andrea Granelli e Flavia Trupia in «Retorica e Business» (Egea, 2014). Per chi, come il vostro umile recensore, sguazza da sempre nel brodo primordiale della contaminazione tra economia, tecnologia e filosofia (che a ben guardare, sono solo tre facce dello stesso Bitcoin...) questo libro è una leccornia intellettuale, un barattolone di Nutella semantica dove naufragare dolcemente dopo giornate spese sull'ultimo business plan aziendale.
Granelli e Trupia prendono per mano il lettore come Virgilio e Beatrice in questo viaggio prima retrospettivo e poi prospettico nella storia della nobile arte della Retorica antica, e dei suoi discepoli moderni, da Mattei a Olivetti, da Jobs a Bergoglio.
Il tentativo, lodevole, del libro è riconciliare il mondo del management aziendale con le buone regole della retorica, dimostrando con ricchezza, ampiezza e solidità di argomentazioni come, lungi dall'essere passata di moda, l'arte di «intuire, ragionare e sedurre» rimanga centrale, specie in questa frammentata era digitale. Senza la capacità di applicare, ciceronianamente, l'articolazione del discorso retorico al mondo digitale, la tecnologia rimane lingua ieratica, geroglifico incomprensible.
La retorica è quindi moderna stele di Rosetta per tradurre il mondo dei numeri in immagini e concetti comprensibili a tutti. E soprattutto accattivanti e convincenti.
Il libro ricorda a manager e imprenditori che, parafrasando Wittgenstein, «i confini del nostro mercato sono i confini del nostro linguaggio». In altre parole: nessuno apprezza e quindi nessuno acquista o investe in ciò che non capisce, o – peggio – che non lo appassiona. Altrimenti il rischio è che il digitale diventi moderna neolingua orwelliana, dove il mondo si rimpicciolisce non tanto perché si estende la Rete, ma perché si impoverisce il nostro linguaggio.
Granelli si toglie un paio di personalissimi sassolini dalle scarpe, quando impietosamente riporta il discorso integrale del manager di una nota azienda telefonica, lanciato in una "filippica" sui successi di Napole(t)one a Waterloo. Ma ancora di più quando fa giustizia di anni di neolingua consulenziale, laddove critica l'ingessatissimo manuale di stile comunicativo di una grande società di consulenza.
In un'ideale continuazione di questo lavoro, come peraltro ha segnalato Ivan Lo Bello nella sua postfazione, è auspicabile che venga trattato l'effetto economico di un'eccellente retorica digitale, come quello che ha saputo proporre Steve Jobs con l'immediatezza delle icone dell'iPhone, e quindi allargando il perimetro del mercato potenziale a miliardi di individui fino ad allora esclusi da un insuperabile digital divide culturale. Perché il linguaggio digitale è la vera lingua franca della modernità. Mentre la parola scritta è ancora nel territorio della sintassi a radici nazionali, il numero sposta le frontiere, come direbbe Bergoglio, e costruisce ponti globali perché è inclusivo e universale, e meno vincolato a culture localistiche
L'invito agli autori è quindi di proseguire a investigare il futuro dei codici di comunicazione con la nuova retorica visiva e non verbale, che ha grandi economie di scala di "reach & richness", come direbbero Evans & Wurster.
Ma l'invito più forte è a manager, imprenditori, start-upper, perché leggano questo bel libro, e lo applichino nella vita d'azienda, per un management che «odori di pecora» come il pastore di papa Francesco. Per me è già un "livre de chevet", da tenere sul comodino digitale del mio iPad.
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