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Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2014 alle ore 13:39.
L'ultima modifica è del 25 aprile 2014 alle ore 12:09.

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Che l'alcolismo diventasse un tema ricorrente nei videogiochi sarebbe stato inverosimile fino a poco tempo fa. Eppure "Spate", platform sviluppato da Eric Provan per Pc (a 9,99 euro), conferma come oggi il settore possa permettersi divagazioni tematiche e narrative finalmente mature. Ma non solo.
Descritto dal suo improbabile creatore - un ex collaboratore di Jim "Muppets" Henson, Sony Animation e Disney - come una miscela di atmosfera, arte e alcol, a guardarlo bene, e a giocarlo, "Spate" ribadisce ben altro: nel gioco si manovra Bluth, un investigatore privato alle prese con persone misteriosamente scomparse fra le remote isole di X Zone. Ma l'indagine, in una cornice dalle spiccate caratteristiche steampunk che fonde l'immaginario disturbante del cinema di David Lynch con un simbolismo pervasivo e litri di pioggia come nemmeno in "Blade Runner", ebbene l'indagine viene complicata dai funesti trascorsi di Bluth, un uomo che affoga nell'abbraccio di Bacco il ricordo della figlia morta.
Lungi dal limitarsi a una sfumatura del racconto, le reiterate alzate di gomito del protagonista, anche a discrezione dell'utente, modificano la percezione visiva e le meccaniche di gioco: un platform bidimensionale - con rare escursioni nel 3d - passa da geometrie lineari à la Super Mario verso orizzonti tremebondi, ambienti che scomodano le liquidità di certo Dalì, il post impressionismo di van Gogh o l'evanescenza di "Dear Eshter", più un'avventura emotiva che un gioco.
Per quanto, ed è lì il cuore di una riflessione non banale, sia proprio l'abuso alcolico a rendere più performante l'avatar digitale. Almeno all'apparenza.
Con il voice over di Jack Bair, musicato dal pluripremiato Mike Raznick, lungo sì e no due ore e costato 14mila dollari racimolati su Kickstarter, "Spate" prosegue una nuova tendenza della produzione videoludica: quella indicata da micro produzioni indipendenti che, libere da costi pesanti e strategie industriali, esplorano temi inusuali e meccaniche più votate all'emozione che all'esaltazione di comparti tecnici d'avanguardia.
Sul medesimo tema lo aveva già dimostrato "Papo & Yo", perla indie fra le migliori del 2012 in cui il game designer Vander Caballero traduceva il suo passato da figlio di alcolizzato in un adventure seducente e terribile; oppure "That Dragon, Cancer", annunciato in esclusiva su Ouya, nel quale Ryan Green racconta la (sua) vita con un bimbo malato.
Perché in fondo, parafrasando la game designer e teorica Anna Anthropy, una cultura che non si faccia portatrice di istanze dalle frange più marginali della società non può dirsi tale. Eric Provan e l'alcolismo ludico di "Spate" lo ribadiscono: il videogame è (sempre più) cultura.

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