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Questo articolo è stato pubblicato il 04 maggio 2014 alle ore 14:27.

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Dal 2003, il rapporto NetVal fotografa il trasferimento tecnologico in Italia dando una visione globale ed esaustiva del fenomeno. Se negli anni i dati raccontano di una realtà che matura e diventa più robusta, descrivendo università sempre più consapevoli della loro terza missione di trasferimento, il confronto con il contesto internazionale ridimensiona questi progressi. Il sistema del trasferimento tecnologico appare profondamente sottofinanziato, frammentato. Una catena del valore non ancora compiuta.

Bart Van Looy, docente presso l'Università di Lovanio (Belgio) ed esperto di politiche sull'innovazione per la Commissione UE, sottolinea come questi numeri, sebbene in forte crescita, siano ancora ben lontani dai valori europei. «Anche una piccola università delle Fiandre genera più brevetti e spin-off della media delle università italiane». Al di là dei numeri, mentre in Europa si stanno ormai diffondendo aziende di medie e grandi dimensioni nate dai laboratori dei centri di ricerca universitari, preoccupa "la scarsa crescita dimensionale delle spin-off accademiche italiane".

Perché in Italia l'azienda che nasce da scienza e tecnologia stenta a crescere? «Non certo perché agli italiani manchino creatività e ingegno» afferma Stefan Schepers, Segretario Generale dell'High Level Group on Innovation Policy and Management. «Sono convinto che questo risultato vada principalmente imputato ad un ecosistema dell'innovazione troppo frammentato, per niente coeso, sfiancato da gravi inefficienze e lentezze della pubblica amministrazione».

Opinione condivisa dal Capo della Segreteria Tecnica del Ministro Guidi, Stefano Firpo, che sta lavorando con l'obiettivo di ridurre gli ostacoli di chi fa impresa in Italia. Firpo sottolinea come "la catena del valore che collega ricerca e mercato sia caratterizzata da troppi solisti e pochi soggetti disposti ad agire con coralità".

A fine maggio, il Technology Forum del Club Ambrosetti discuterà proprio di che forma potrebbe avere un Transfer Lab unico nazionale. Sottolinea il CEO di Ambrosetti, Valerio De Molli, che "l'obiettivo è superare il carattere occasionale del trasferimento tecnologico, che avviene oggi in condizioni subottimali per la creazione di valore perché privo di un ecosistema di riferimento". Quattro università in Lombardia ci stanno provando, mettendo a fattor comune le risorse dedicate al trasferimento di Pavia, Bergamo, Brescia e Milano Bicocca. Anche in altre regioni italiane stanno emergendo progetti simili che meriterebbero sostegno e risorse sia da parte pubblica che privata.

A conferma del percorso di maturazione che sta compiendo la realtà nazionale del trasferimento, due testimonianze significative. La prima è quella di Tom Hockaday, Managing Director di Isis Innovation, società di valorizzazione tecnologica dell'Università di Oxford, che evidenzia il valore fondamentale dell'attività di coaching reciproco tra manager degli enti di ricerca. La seconda arriva da Richard Hudson, CEO di Science|Business, una delle principali associazioni di università e industria in Europa: «gli italiani sono sempre più presenti, con autorevolezza, nei dibattiti internazionali su questi temi».

Ciò detto, per entrambi questi esperti i numeri su brevetti, licenze e spin-off, testimoniano "l'esistenza di ampi margini di crescita" del sistema italiano e il dito viene puntato non tanto contro le inefficienze dei meccanismi di trasferimento, ma piuttosto contro la scarsità degli investimenti e le condizioni sfavorevoli allo sviluppo del talento degli individui. Secondo Hudson "c'è troppa buona ricerca fatta da Italiani fuori dall'Italia: segno che qualche cosa non funziona, che queste persone hanno trovato all'estero condizioni per crescere professionalmente che non avevano in patria". Questa emorragia rappresenta un rischio gravissimo "perché sarebbe inutile parlare di strumenti per il marketing delle tecnologie se poi in Italia non rimane nessuno a svilupparle".

Una lezione che si potrebbe trarre dal successo di Isis Innovation, sottolinea Hockaday, è che ad Oxford vige la consapevolezza di lavorare non per produrre brevetti o spin-off, ma per essere a servizio dell'attività del ricercatore dell'università, affiancandolo nel suo lavoro, adattando anche gli strumenti a disposizione, se necessario.

Gli fa eco Henry Chesbrough, professore all'Università di Berkeley (California) che ha coniato il termine Open Innovation, «i manager delle università italiane dovrebbero focalizzarsi di meno su brevetti e contratti di licenze ed essere spinti a inventare e sperimentare nuovi percorsi e modelli di trasferimento». Su quali siano le dimensioni e attività da far ricomprendere nell'ambito della terza missione, ANVUR, l'agenzia nazionale che si occupa di valutare i risultati della ricerca in Italia, promette novità.
In sintesi: una logica di sistema più coesa, un ambiente imprenditoriale sburocratizzato e più risorse. Ma non solo. Il cambio di marcia comporta il non pensare più alla valorizzazione di scienza e tecnologie come ad un trasferimento, concentrandosi quindi esclusivamente sugli strumenti di interfaccia tra ricerca e industria. Deve farsi strada l'idea di un accompagnamento dello scienziato lungo tutte le diverse fasi del suo lavoro: un percorso finalizzato a potenziare la sua autonomia progettuale, a formarlo da un punto di vista imprenditoriale, a comprendere e a comunicare l'impatto della sua ricerca sulle sfide della società.

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