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La laurea generalista? Solo un pezzo di carta

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2010 alle ore 07:54.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2010 alle ore 08:52.

Le inquietanti statistiche sull'occupazione giovanile pubblicate in questi giorni dimostrano, tra gli altri, il fallimento della laurea generalista. Ovvero la cronica disoccupazione che si abbatte sui laureati a 28 anni senza specializzazione.
Basta guardare i dati. Quelli Istat ci dicono che un giovane su quattro non trova lavoro mentre da quelli di Datagiovani, pubblicati qualche giorno fa sul Sole 24 ore, emerge che, seppure il 36% dei nuovi posti di lavoro riguarderà gli under 30, l'occupazione giovanile polarizzerà attorno a due figure.

Quella dei laureati iper-specializzati che parlano lingue straniere e sono esperti nei settori più innovativi della produzione e quella dei giovani che non hanno paura di rimboccarsi le maniche e sono pronti a svolgere un lavoro tecnico, artigiano o agricolo e si sono formati sul campo, negli istituti professionali come nei laboratori artigiani. Si tratta di una tendenza che non deve stupire e che si rafforzerà nel corso degli anni. Perché, come dimostrano tutte le statistiche, la crescita del nostro Pil è indissolubilmente legata all'andamento delle esportazioni e, come emerge da tutti gli studi sulla "glocalizzazione", per avere successo nella competizione globale le imprese devono avere la capacità di esportare in tutto il mondo i prodotti locali della nostra straordinaria cultura. Così si spiega il successo internazionale della Ferrari, come la grande richiesta di mozzarella di bufala e vini piemontesi, le vendite della nostra moda, e, più in generale, le visite del padiglione Italia all'Expo di Shanghai.

Per questo, come emerge anche dalle indagini del Centro studi della Confindustria, le imprese cercano giovani che siano pronti a imparare quei mestieri che hanno fatto la grandezza del Made in Italy oppure quei laureati con conoscenze altamente specialistiche nel campo delle finanze, della logistica, del marketing o della gestione aziendale, che siano in grado di valorizzare sui mercati internazionali i prodotti delle grandi aziende come quelli delle filiere produttive e dei distretti.

Nel mezzo, ovvero tra i disoccupati e gli inattivi, sono destinati a rimanere i bamboccioni, o meglio, quelli che si laureano a 28 anni, che non hanno un master e non parlano lingue straniere e spesso rimangono a casa con i genitori anche oltre i 30 anni. Perché, per competere sui mercati internazionali, le imprese non hanno bisogno di neolaureati trentenni che non hanno competenze specialistiche ma snobbano il lavoro tecnico come quello manuale. Ed infatti, l'Italia è l'unico Paese europeo in cui il tasso di disoccupazione dei giovani laureati maschi è maggiore di quello dei coetanei con un livello di istruzione inferiore.

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Tags Correlati: Confindustria | Istat | Italia | Scuola e Università

 

Purtroppo si tratta di un dato terrificante, perché, ad oggi, complice anche l'introduzione del 3+2, nel nostro paese i giovani che, per disinteresse, per nascita o per paura, preferiscono restare parcheggiati nelle università e continuare a vivere a spese dei genitori, sono tanti anzi troppi. L'età media di chi si laurea è di 27,3 anni, seppure ci sono stati alcuni miglioramenti posto che all'inizio del decennio l'età media era di 28 anni, e chi si laurea con più di cinque anni di ritardo, è in media il 17%.

Insomma, le statistiche ci dimostrano che se vogliamo avere un futuro e sconfiggere la disoccupazione giovanile, dobbiamo cominciare sfatando il mito secondo cui basta una laurea generalista a 28 anni per trovare lavoro. Perché, per sopravvivere alla competizione globale, non basta un pezzo di carta ma servono piuttosto mestieri e professionalità, poco importa che siano intellettuali o manuali, che siano stati acquisiti sul campo o nelle università. L'importante è non averci messo troppo tempo.

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