House Ad
House Ad

Dossier Bric

Finanza e Mercati In primo piano

Imprese oltre il declino

Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2010 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 09 novembre 2010 alle ore 06:39.

Prima c'è stata la sindrome del declino. Poi il suo quasi-ribaltamento-ravvedimento. Infine è arrivata la crisi globale a scompigliare nuovamente le carte. Per l'industria manifatturiera italiana pare che non vi siano mai certezze e riaffiorano sempre inquietudini sul suo futuro e sulla sua competitività.


Il declino evidentemente non c'è stato, anche se dal 1999 al 2004 la nostra industria ha visto letteralmente i sorci verdi a causa dell'irrompere della concorrenza asimmetrica cinese, che alcuni ancora pensano sia stata un'invenzione propagandistica della Lega Nord. In quel quinquennio difficilissimo, il nostro attivo commerciale con l'estero per i manufatti (esclusa la chimica, per rendere omogenei i confronti) è cresciuto solo del 5% mentre quello tedesco aumentava del 96% e quello cinese, in gran parte a nostre spese, cresceva del 148 per cento. A quell'epoca sembrava che la concorrenza cinese e lo yuan sottovalutato danneggiassero solo il made in Italy, che perdeva inesorabilmente quote di mercato nelle calzature, nel tessile-abbigliamento e nei mobili.
Ma poi è arrivato il colpo di reni della nostra industria manifatturiera. Tra il 2004 e il 2008 il surplus commerciale italiano per i manufatti (senza chimica) è addirittura cresciuto più di quello tedesco: +35% contro +28 per cento. Mentre la Cina, che ormai non esporta più solo scarpe e abbigliamento ma anche elettronica e tecnologie, è diventata un autentico "tritatutto": +257 per cento. Adesso Pechino fa più paura alle altre economie avanzate che all'Italia. E nel 2010 invocare la rivalutazione dello yuan come fanno tanti paesi e guru del libero mercato non è più considerato "protezionismo", come quando era la sola Italia a lamentarsi.


L'Italia, per non soccombere alla Cina, si è specializzata maggiormente nella meccanica-mezzi di trasporto e si è posizionata nei segmenti a più alto valore aggiunto negli altri manufatti. E il surplus italiano con l'estero nelle "4 A" (le tradizionali Alimentari-vini, Abbigliamento-moda e Arredo-casa, supportate dalla sempre più dinamica Automazione-meccanica) ha toccato nel 2008 un massimo storico di ben 113 miliardi di euro: 20 miliardi in più dell'attivo tedesco per i veicoli. Se il made in Italy fosse stato veramente in declino non sarebbe chiaramente riuscito ad esprimere una reazione simile.
La realtà è che nell'ultimo decennio si è delineata una curiosa forbice tra gli indicatori di competitività dell'Italia: quelli che dovrebbero condizionarla (tipo la produttività, il tasso di cambio reale, eccetera) vanno male, mentre quelli che ne misurano il risultato finale (tipo il surplus manifatturiero, le quote di mercato, eccetera) ci dicono che siamo rimasti forti. È chiaro che non si può tirare troppo la corda e la forbice deve essere chiusa, migliorando sia la competitività delle aziende che quella del sistema-Italia. Ma finora il made in Italy ha sempre smentito le cassandre.

L’articolo continua sotto

Tags Correlati: Basf | Bill Emmott | Cina | Eurostat | Germania | Imprese | Italia | Lega | Siemens | Volkswagen

 


Significativo è il fatto che negli ultimi anni l'export italiano in valore ha avuto una dinamica straordinariamente somigliante a quella dell'export della Germania, che secondo il Trade Performance Index dell'Unctad-Wto è il paese più competitivo al mondo quanto a risultati, proprio davanti all'Italia che è seconda.
Tuttavia, nella fase di ripresa l'export tedesco sembra mostrare una marcia in più rispetto a quello italiano. Infatti, le esportazioni cumulate in valore della Germania negli ultimi 12 mesi "scorrevoli" dall'agosto del 2009 al luglio del 2010 sono risultate del 3,8% superiori a quelle dei corrispondenti 12 mesi "scorrevoli" precedenti, mentre le esportazioni italiane nello stesso periodo sono rimaste praticamente ferme. Ciò ha riaperto l'eterna diatriba sulla nostra presunta perdita di competitività.


In verità, negli ultimi 12 mesi "scorrevoli" l'export della Germania è stato trainato principalmente dalle vendite extra-Ue (+8,1% mentre l'Italia ha registrato solo un modesto +0,1%). E il merito di ciò è stato dei grandi gruppi industriali dell'auto, della chimica e dell'elettromeccanica, cioè di quello che potremmo definire l'effetto "Volkswagen-Audi-Basf-Siemens". Ma poiché l'Italia non possiede né la Volkswagen-Audi né la Basf né la Siemens, è inutile buttare nuovamente la croce sul made in Italy, sulle Pmi e sui distretti industriali. Prova ne è che il resto dell'export verso i paesi extra Ue, depurato di auto, chimica ed elettromeccanica, negli ultimi 12 mesi è andato in maniera abbastanza simile in Germania (+1,8%) e in Italia (-1,6%).
E, comunque, nemmeno la Germania può illudersi di poter far correre il proprio Pil soltanto con l'export di auto di lusso in Cina. Infatti, nel 2009 la Cina e gli altri 3 Bric pesavano ancora pochissimo sull'export totale dei maggiori paesi: solo il 9,4% nell'export della Germania, il 7,3% in quello italiano, il 6,8% in quello francese, il 5,8% in quello britannico. Fintanto che i Bric resteranno dei mercati "miraggio" (indubbiamente straordinari per singole imprese dei paesi ricchi, ma marginali per il resto delle loro macroeconomie nazionali) crescere solo con l'export, per quanto si possa essere competitivi, non basterà a nessuno. Anche perché il resto del mondo avanzato è oggi pieno di debiti, non cresce e non compra più come un tempo i beni dei paesi manifatturieri esportatori.


Il problema di fondo della bassa crescita a lungo termine dell'Italia e anche della Germania non è certo la competitività delle rispettive industrie manifatturiere e dell'export. È invece quello della debolezza della domanda interna che, secondo gli indici trimestrali destagionalizzati dell'Eurostat, dal 2000 (anno base) al secondo trimestre 2010 in Germania è aumentata in termini reali persino meno che in Italia: +3% contro +4,5.
Più in generale, la questione di fondo è: senza più "bolle" e con gli attuali livelli di debiti privati e pubblici, è ancora possibile nei prossimi anni una forte crescita della domanda interna e quindi del Pil nei paesi ricchi? In un simile scenario, sempre più verosimile, conservare una forte industria manifatturiera come stanno facendo l'Italia e la Germania non è una scelta "primitiva", come ha scritto Bill Emmott sulla Stampa di domenica scorsa. È perlomeno una garanzia per non rischiare di diventare più poveri, come sta accadendo a Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda.

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.