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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2011 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 28 aprile 2011 alle ore 06:38.

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La banca diventa padrona in aziendaLa banca diventa padrona in azienda

Un filo di prestiti alle imprese esce di nuovo dai rubinetti delle banche. La stagione del credit crunch duro e puro, anche grazie alle moratorie sui debiti, sembra archiviata. C'è però un problema che riguarda la fisiologia più profonda del nostro tessuto produttivo: l'uso che di questi soldi fanno le aziende italiane. Un utilizzo che, soprattutto se comparato al resto del sistema industriale europeo, rischia di rallentare lo sviluppo del Paese. Nuovo debito per ristrutturare il vecchio debito.

Non per ripatrimonializzare le aziende o per effettuare aumenti di capitale preliminari a fusioni fra le società. «Negli ultimi mesi - constata l'economista Giovanni Ferri, ex Banca Mondiale e ora membro del comitato consultivo della European Banking Authority - il credito è gradualmente tornato ad affluire nelle casse delle aziende».

Secondo l'ultimo bollettino della Banca d'Italia, a febbraio i prestiti bancari sono aumentati di un 3% tendenziale nel caso delle imprese con meno di venti addetti, del 4,8% per quelle con meno di cinque e del 3,5% per tutte le altre, definite medio-grandi. Un incremento progressivo. A dicembre dell'anno scorso era stato del 2,3% per le piccole, del 4,3% per le piccolissime e dello 0,6% per le medio-grandi. Andando a ritroso, a settembre era stato rispettivamente del 2,1%, del 3,6% e negativo per lo 0,3 per cento. A giugno, per le tre categorie dimensionali, si era verificato un vero credit crunch: per le piccole nessuna variazione, per le piccolissime +0,9% e per le medio-grandi una variazione addirittura negativa del 2,3 per cento. Zero per cento o addirittura meno di zero: scorporando l'effetto inflazione, vero credit crunch tecnico. Ora le cose sono cambiate. Dunque, superata l'emergenza il nodo vero da sciogliere è capire come le imprese impiegano questi finanziamenti.

L'ufficio studi dell'Abi ha costruito per Il Sole 24 Ore un indice che indaga l'importanza relativa dei fattori per la domanda di prestiti da parte delle imprese, italiane in particolare e dell'area euro in generale. Un indice che va da +100 (massima importanza per quella ragione) a -100 (minima importanza). Prendendo i dati del quarto trimestre del 2010, in Italia la ristrutturazione del debito vale 62,5 punti. Nel resto dell'Europa, questo indicatore si ferma a 16 punti. Dunque, per le nostre aziende la strategia di curare il vecchio debito con il nuovo debito ha un peso quattro volte maggiore rispetto ai competitor europei. Se invece questo indice d'importanza relativa è calibrato sulla ristrutturazione degli assetti proprietari (ricapitalizzazioni, in solitaria o per fusioni e acquisizioni), viene fuori un impietoso zero punti per le aziende italiane, a fronte di un +8 per quelle dell'area euro. L'immagine è rovesciata in maniera simmetrica nel caso del finanziamento del capitale circolante: 25 punti per le italiane e 13 per le straniere. Lo stesso vale per gli investimenti fissi che, se sono pari a zero punti per queste ultime, sprofondano a -25 per quelle italiane.

Dunque, per le imprese italiane si profila una strategia industrial-finanziaria molto differente rispetto a quelle europee. Una strategia che può essere letta in maniera duplice: «La ristrutturazione del debito è cosa buona e giusta - dice Vincenzo Boccia, presidente di Piccola Industria - soprattutto se è fondata sulla trasformazione della posizione dell'azienda nel rapporto con la banca dal breve al medio-lungo termine. E, spesso, questo è capitato. Però, anche un'efficace ristrutturazione del debito non è sufficiente in sé e per sé. Va inserita in una strategia finanziaria nitida che, ammettiamolo, non è mai stata un fondamentale delle nostre aziende. La ripatrimonializzazione spesso è un'opzione da praticare. Gli investimenti non vanno sottovalutati».

Certo, il punto di partenza è anche una dimensione media dell'impresa che, in ogni segmento, è minore rispetto a quella europea. Ma non c'è soltanto questo. «L'assetto regolatorio - ragiona Enrico Corali, presidente della Banca di Legnano - oltre a influenzare le banche, dovrebbe plasmare anche la fisionomia delle imprese. La minore differenza nella propensione a usare i prestiti per ricapitalizzarsi mostra come, nel caso italiano, Basilea 2 abbia avuto un effetto incompleto. Basilea 2, infatti, assegnava alla patrimonializzazione una componente importante nell'attribuzione del rating creditizio alle imprese. Questa ricaduta, a differenza di altre come l'ordine nei conti e la precisione nel rapporto con la banca, non si è registrata».

La propensione a curare il debito con il debito, la gracilità di tanta parte di un sistema industriale, oggi segnato dalla ritirata dalle grandi imprese, e gli effetti della propagazione al tessuto produttivo del virus della crisi finanziaria rappresentano un mix strutturale che, negli ultimi anni, ha trasformato le banche da creditori di riferimento ad azionisti di riferimento. Accumuli debiti? Alla fine la banca, per evitare un eccesso di incagli che nei tempi duri di Basilea 3 potrebbe depauperare la sua solidità, converte i crediti inesigibili in quote di capitale. Proprio quel capitale a cui gli imprenditori tendono a pensare poco, quando in tempi buoni prendono soldi in prestito dai funzionari agli sportelli.

Secondo la Bce, il valore delle partecipazioni in società non finanziarie detenute dalle banche in Italia a fine 2010 era pari a 86,8 miliardi di euro. Alla fine del 2008, all'inizio della crisi, era di 73,9 miliardi. Dieci anni fa era di 34,9 miliardi. Dunque, un incremento del 150 per cento. Nell'area euro, a fine 2010 era pari a 787 miliardi. Dieci anni prima era di 510 miliardi. Un aumento del 50 per cento.

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