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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2011 alle ore 08:59.
L'ultima modifica è del 12 agosto 2011 alle ore 09:00.

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Non che ci avessi capito molto. Ero un bambino, però gli altri mi spiegavano tutto. Avevo solo capito che riguardava il petrolio, e oltretutto in quella occasione avevo scoperto che il petrolio non era soltanto quella specie di colata nera che si vedeva in televisione, ma che si propagava e si trasformava in tante altre cose inimmaginabili, e arrivava dentro casa nostra. Per esempio, finiva per riguardare proprio la televisione.

Da quando c'era questo problema del petrolio, infatti, si era deciso (da qualche parte che non sapevo dov'era e cos'era) che i programmi finivano prima delle undici di sera; la cosa non mi riguardava, io già dormivo, ma se ne parlava, era come un segno inequivocabile, definitivo, della crisi.

Crisi, crisi, crisi. Questa era la parola da cui partiva tutto, a cui arrivava tutto. Però poi dicevamo che non c'entrava solo il petrolio, ma anche il canale di Suez. Il canale di Suez era molto importante, dicevano, e il fatto che l'avessero chiuso era un bel guaio. Mio padre un pomeriggio prese l'atlante e mi fece vedere che giro bisognava fare, per arrivare da noi senza il canale di Suez. E in effetti, bisognava fare un giro molto molto largo. Bisognava circumnavigare tutta l'Africa, poi entrare dallo Stretto di Gibilterra e solo dopo si poteva decidere a quale porto attraccare per consegnare il petrolio che serviva.

Il fatto è che l'Egitto aveva fatto una guerra con Israele, un paio di mesi prima, e aveva perso, e accusava l'Europa di aver appoggiato Israele. E così non ci volevano dare più il petrolio. Non so se le cose erano andate esattamente così, però così le avevo capite. Ora c'erano quelli che dicevano che aveva ragione Israele, quelli che dicevano che aveva ragione l'Egitto; quelli che ritenevano ingiusto che il canale di Suez chiudesse e quelli che lo ritenevano giusto. C'erano poi quelli che erano contenti che le cose andavano così male, e quelli che erano preoccupati. Io stavo con la testa puntata verso l'alto, ascoltavo tutti, vedevo che si arrabbiavano discutendo, ma poi facevano come se non si fossero arrabbiati.

Avevo tutte queste cose in testa, confuse e inafferrabili, quella domenica mattina del 2 dicembre del 1973. Sapevo che era una mattina diversa, ma ero concentrato sulla questione principale: la domenica avevo diritto a dieci bustine di calciatori, e se il canale di Suez non avesse intaccato il mio diritto, poteva succedere quello che volevano, potevano essere preoccupati quanto volevano. Perché erano preoccupati. Tutti. I miei genitori, mio nonno che si chiedeva se qualcuno sarebbe venuto a mangiare al suo ristorante, mia zia che continuava a guardare telegiornali per capire se c'era qualcosa di più, se c'era qualcosa che non ci avevano detto. La preoccupazione arrivava da questo sentore, che c'era sempre, mi pareva: c'è qualcosa che non sappiamo; potrebbe essere più grave di quello che ci dicono.

Però poi, alla fine, uscimmo. Valevano le parole di mia madre, semplici e rassicuranti: e che sarà mai. Allora, uscimmo. Tutti e cinque - mio padre, mia madre e noi tre fratelli. Ero il più grande, non li consideravo gli altri due, pensavo che loro del canale di Suez e del petrolio non avrebbero capito niente, erano piccoli e stupidi, solo a me mio padre poteva spiegare e far vedere sulla cartina il giro enorme che bisognava fare per portarci il petrolio a casa. Per questo, anche se ci capivo poco, facevo finta di capirci di più, ma facevo finta anche un poco con me stesso, e pronunciavo le parole che bisognava pronunciare. Crisi. Petrolio. Canale di Suez. E soprattutto quella più importante: austerity. Era questa la parola di oggi, nuova. Era questa che si sentiva al telegiornale, si leggeva sui giornali. Era questa la parola che destava preoccupazione, ma anche, un po', eccitazione.

Era la prima domenica di austerity. Si chiamava così. E bastò oltrepassare il portone per accorgersene. C'era un silenzio che non avevo mai sentito. Non era un silenzio senza rumore, era un silenzio con molti rumori, ma ogni rumore era attutito e sembrava non sommarsi a un altro. Anche noi facevamo rumore: le nostre domande, le nostre parole, i nostri passi. Erano come i rumori degli altri. Questi erano i rumori, non più gli altri. E ogni rumore era comprensibile. Ti potevi sedere e ascoltare e dire: ora dicono questo, ora fanno questo. Ogni tanto, in questo silenzio senza silenzio, passava un autobus, ma raramente, e il suo motore era diverso, nitido, unico, arrivava da lontano, cresceva, passava accanto, diminuiva, spariva.

E poi ci fu il momento in cui decidemmo, per la prima volta in vita nostra, di camminare in mezzo alla strada, come stavano facendo anche altri. Mio padre fece una torsione improvvisa, allegra, e a catena tutti lo seguimmo. E adesso eravamo piantati in mezzo alla strada. Era una sensazione inedita, bellissima. E poi, mio padre e mia madre cominciarono a salutare, a fermarsi, ad accovacciarsi accanto ad altri bambini e altri signori si accovacciavano davanti a noi e ci accarezzavano. E comprammo le bustine dei calciatori, bevemmo una bibita tutti insieme ai tavolini di un bar - facemmo tante cose che non avevamo mai fatto, la domenica mattina. Eppure le domeniche mattina, quelle che avevo vissuto fino ad allora, erano già le mattine più belle. Ma nessuna era bella come questa. E adesso avevamo la certezza che ce ne sarebbero state altre. E sembravamo contenti, noi cinque, e anche tutti gli altri. Si vedeva da quanto tempo restavano in strada, dai sorrisi, dai saltelli e dalle brevi corse di qualcuno che inseguiva qualcun altro.

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