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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2011 alle ore 08:27.
L'ultima modifica è del 11 agosto 2011 alle ore 06:39.

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Illustrazione di Antonello SilveriniIllustrazione di Antonello Silverini

La forza e l'attrattiva di cui è ancora dotato il made in Italy si percepiscono quando i simboli della produzione italiana sono posti a contatto di quelli tipici degli altri Paesi. Ha ragione, dunque, il giornalista inglese Evan Davis a scrivere (nel suo Made in Britain, Little, Brown) che per molti visitatori dell'Expo 2010 di Shanghai il padiglione del Regno Unito appariva quasi soltanto come uno spazio fra quelli dell'Italia e della Francia. Questo perché, dice Davis, non era esposto al suo interno nulla che facesse pensare a una specificità inglese, laddove i padiglioni d'Italia e Francia evocavano caratteri nazionali forti e distintivi.

Basterebbe una considerazione come quella che Davis pone in apertura del suo libro per ricordarci – soprattutto nei giorni difficili e ingrati che stiamo vivendo – che un'identità italiana ancora riconoscibile resiste. Ma, appunto, si tratta di un senso che non si può coltivare a freddo. Devono essere le circostanze concrete a farlo emergere e risaltare. Occorre, per così dire, che l'evocazione non sia indotta, ma spontanea.

A me è successo in una giornata fredda e ventosa del febbraio 1987, a New York, dov'ero andato da Boston, per una parentesi turistica che mi ero ritagliato durante un soggiorno per un convegno e dei seminari patrocinati dal Massachusetts Institute of Technology. Certo, si potrà dire che ero stato predisposto bene proprio da quelle iniziative: uno studioso noto anche in Europa, Charles F. Sabel (che insegnava allora al Mit), aveva organizzato degli incontri per parlare delle trasformazioni che andava subendo il sistema delle imprese italiane.

Può darsi allora che avessi una reattività particolare dinanzi ai fenomeni e agli indicatori capaci di rivelare un'Italia non solo economicamente attrezzata, ma originale e innovativa, priva - almeno in quelle circostanze - dei complessi d'inferiorità che l'hanno spesso segnata. Ma entrando al Museum of Modern Art non pensavo all'Italia industriale di cui discutevamo a Boston.

A New York ero giunto con l'attitudine tipica del turista (per quanto lo permettesse il gelo dell'inverno nordamericano). Era la prima volta che ci andavo e l'intenzione era quella di spendere qualche giorno nei luoghi peculiari della città, come facevano tutti i visitatori in grado di concedersi una breve vacanza fuori stagione.

Tuttavia, non si può comprimere la propria natura e l'anima dell'appassionato della storia industriale non aspettava che l'occasione per riaffiorare. E l'occasione si presentò nella forma di uno dei più noti oggetti del design italiano esposti al Moma, la Olivetti Lettera 22. C'entrava forse il fatto che i miei studi e le mie frequentazioni olivettiane fossero ancora freschi, ma vedere lì, sotto le luci di un museo così prestigioso, una macchina per scrivere che tanti ancora usavano, quando la videoscrittura e il computer erano ai primi passi, suscitò in me una grande impressione.

Parrà forse strano raccontarlo, ma a un giovane studioso di allora, che aveva alle spalle qualche anno di lavoro trascorso sulla storia della Olivetti e di colui che l'aveva resa celebre, Adriano, parve singolare ritrovare lì, in un contesto tanto diverso da quello dov'era nata, quella macchina di uso così comune, capostipite di altre portatili di successo (come la Lettera 32). L'aveva progettata uno dei designer più noti fra quelli impiegati da Adriano Olivetti, Marcello Nizzoli, quando aveva già maturato una lunga esperienza di collaborazione con l'industria e varcato la soglia dei sessant'anni. Nizzoli era il creatore del profilo di altre macchine famose come la Lexicon e come la straordinaria Divisumma, la calcolatrice meccanica che avrebbe garantito alla Olivetti un successo strepitoso per anni e anni su molti mercati (e vorrei rammentare che a scegliere questi nomi di prodotto, belli e fortunati, aveva prestato il proprio talento letterario Franco Fortini).

L'anno di nascita della Lettera 22 è formalmente il 1950, ma il suo boom sarebbe arrivato qualche anno dopo. A metà degli anni 50 s'impose come un prodotto-simbolo, un vettore efficacissimo dell'immagine Olivetti nel mondo, grazie alla sua capacità di diffusione. A me venne subito in mente uno degli slogan che avevano accompagnato la sua promozione: «Questa macchina viene da Agliè». In quel piccolo Comune del Canavese, infatti, Adriano Olivetti aveva voluto che si allestisse il suo montaggio, perché c'era stata una crisi industriale quando lo stabilimento tessile della De Angeli Frua aveva chiuso i battenti e la casa d'Ivrea era giunta in soccorso, per far sì che non si spezzasse l'equilibrio sociale di quel territorio. Lo slogan mi sembrò, e ancora mi sembra adesso, di rara efficacia: era di per sé glocal, globale e insieme ultra-locale. La Lettera 22 sarebbe stata venduta ovunque si diramassero i terminali commerciali della Olivetti nel mondo, ma si voleva che la macchina non rinunciasse a un imprinting molto local, quasi a voler fare presente a tutti che in essa era incorporato il lavoro italiano. E, per Adriano Olivetti, il lavoro era inscindibile dalla ricerca della qualità, fatta insieme di accuratezza tecnica e di bellezza.

Il lavoro, la qualità, l'estetica: tutte doti racchiuse in quella piccola macchina per scrivere, destinata a finire nelle mani del maggior numero possibile di uomini e donne, fossero studenti alle prime armi o giornalisti famosi come Indro Montanelli, che dalla sua Lettera 22 non si sarebbe più distaccato, continuando a pigiarci sopra per il resto della vita.

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