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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2011 alle ore 12:00.
L'ultima modifica è del 27 agosto 2011 alle ore 08:14.

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Questo sentimento ambivalente, impastato di compiacimento e di infamia, venne lenito grazie al cinema, ai nostri grandi registi del primo dopoguerra. Per raggiungere la facoltà di Scienze politiche dal mio alloggio dovevo andare dalla parte opposta del campus. Quando faceva brutto tempo, invece di fare una lunga passeggiata per i prati o lungo il fiume Charles, era meglio, molto meglio, attraversare dall'interno tutto l'edificio principale dell'università. Contrariamente alle nostre sedi di allora non c'erano scritte sui muri inneggianti a mobilitazioni e rivoluzioni: al loro posto una miriade di annunci di attività di ogni genere. Un giorno mi cadde l'occhio sull'avviso di una discussione di gruppo sul cinema del neorealismo italiano. Incuriosito vidi che era in programma non solo la proiezione dei grandi classici di Rossellini, De Sica e Visconti, ma anche "il dibattito", una modalità da cineforum anni Sessanta, da noi seppellita dopo l'urlo dissacrante di Villaggio-Fantozzi e l'ironia acida di Nanni Moretti. Alla fine decisi di andare. Rivedere quei film suscitò un'emozione inaspettata. Forse era l'effetto di un po' di saudade, forse era la forza intrinseca di quelle immagini.

Comunque, non ero il solo a sentirne la potenza evocativa. Un'amica che mi accompagnava non trattenne, nella scena topica di Roma città aperta, quando Anna Magnani rincorre disperata il camion che porta via il marito e cade falciata dai mitra tedeschi, una cascata di lacrime.
Il silenzio religioso, la partecipazione emotiva, la fascinazione quasi estatica che coinvolgeva tutti gli spettatori trasmetteva il valore che quelle opere avevano per gli spettatori. In quanto unico italiano in quel gruppo ero inevitabilmente trascinato a intervenire nel dibattito. Mentre le mie erano osservazioni banali e sconnesse, tutti gli altri invece arrivavano preparatissimi con note biografiche, recensioni, appunti. Approfondivano i vari aspetti del film e ne dibattevano fin nei particolari, con grande passione. Alla fine, tutte le serate, invariabilmente, si chiudevano con un coro unanime di ammirazione per l'opera dei registi italiani.

Il neorealismo era visto come una grande scuola cinematografica, una fonte di ispirazione poetica e tecnica attuale, e una ulteriore - ennesima, dicevano alcuni - prova del "genio italico" nelle arti. Queste conclusioni in cui tutti finivano per guardarmi ovviamente mi riempivano di imbarazzo perché sembrava che io potessi aver qualcosa in comune con quei mostri sacri. Figurarsi! Allo stesso tempo però, sotto sotto, uscivo dal cinema con un profondo senso di soddisfazione. Nonostante il clientelismo e il terrorismo, l'instabilità politica e la mafia, dell'Italia si parlava anche in termini positivi. In effetti, in quelle occasioni si manifestava appieno la schizofrenia di lungo periodo della nostra nazione: da un lato lamentiamo una debolezza istituzionale frutto della tarda e claudicante unificazione, poi aggravata da disastri epocali quali il fascismo e la guerra; dall'altro vantiamo una creatività artistica senza pari.

Mentre non possiamo andar fieri di tutto ciò che riguarda le virtù civiche e le tradizioni politico-istituzionali, del contributo dei nostri intellettuali in ogni campo sì. Del resto è proprio su questo aspetto che si coagula il senso di appartenenza nazionale. Ci sentiamo orgogliosamente italiani se pensiamo a Dante e a Leonardo, a Michelangelo e a Galilei, a Leopardi e a Fermi, perché il nostro vero e profondo vanto nazionale non rimanda alle epopee militari o civili: si ritrova nella produzione intellettuale. E in questo c'è un motivo in più per "vantarsene": perché le opere dell'ingegno non hanno un marchio nazionale esclusivo, sono un patrimonio universale, fruibile e aperto a tutti.

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