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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2011 alle ore 14:08.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2011 alle ore 09:22.
Il mio orgoglio di italiano ha un sapore tutto risorgimentale e ottocentesco. Nell'anno delle celebrazioni per l'Unità lo posso confessare. Ma questo non vuol dire affatto che quel sentimento di fierezza per un passato e un'identità abbia qualcosa a che fare con le imprese di Cavour, Mazzini e Garibaldi. Il mio nazionalismo non bellicoso, da italiano dell'inizio del XXI secolo, è risorgimentale e ottocentesco solo per il modo in cui si è manifestato.
Né il libro Cuore né la Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi sono riusciti a trasformarmi in una "piccola vedetta lombarda" o in un "piccolo scrivano fiorentino". Quando ho fatto le elementari la scuola aveva smesso di essere quel formidabile veicolo di patriottismo che era stata. Come tutti coloro che sono nati a ridosso del 1968 appartengo a una generazione che si è dovuta sorbire solo in dosi modeste la retorica nazionalistica insegnata ai miei nonni e ai miei genitori. Quando è arrivata l'adolescenza e ho cominciato a esplorare gli scaffali delle librerie di casa il mio cuore ha cominciato a battere presto per l'universalismo illuminista e per un internazionalismo socialisteggiante. Con il risultato che per l'orgoglio di essere italiani non c'era spazio nel grande conflitto tra Luce e Tenebre e tra Lavoro e Capitale.
Il vero senso di appartenenza è venuto molto più tardi. E se non fosse stato per due lunghi soggiorni in Francia posso anche pensare che, forse, non si sarebbe sviluppato mai. Prima, semplicemente, per me il problema non sussisteva. Ho appreso a percepirmi italiano soprattutto negli occhi degli altri, vivendo a Parigi come studente Erasmus e qualche anno più tardi durante il dottorato. All'estero non puoi sottrarti alla domanda di che cosa vuol dire essere italiano e dell'impressione che questa classificazione (l'italiano della compagnia) ti fa. Dovunque vai sarà il primo modo in cui ti classificheranno, nel bene e nel male (e una delle cose belle dell'essere un italiano all'estero sono tutti gli stereotipi positivi che ci circondano e di cui spesso da qui non ci rendiamo conto). E questo ti costringe a non aggirare la questione.
L'orgoglio di essere italiano è stato il risultato di uno shock. È in questo senso che parlo di un'origine tutta ottocentesca e risorgimentale. Dai quadri alle poesie, nella narrazione patriottica del nostro Ottocento decisivo è il momento della presa di coscienza di un'offesa originaria. L'Italia (donna) appare vittima dei soprusi degli stranieri. Finché gli italiani, consapevoli del torto subìto sino a quel momento, rialzano il capo e si uniscono per gridare in coro il loro no. Anche in senso letterale, come nel caso dell'Adelchi di Manzoni: «Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti / Dai boschi, dall'arse fucine stridenti, / Dai solchi bagnati di servo sudor, / Un volgo disperso repente si desta; / Intende l'orecchio, solleva la testa / Percosso da novo crescente romor».
Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Una sequenza di umiliazioni e riscosse, nuove umiliazioni e nuove riscosse, rivelatasi fertile per pittori, poeti e compositori in cerca di un soggetto per la loro arte. Il giuramento di Pontida. I Vespri siciliani. La cacciata da Firenze del duca d'Atene. Il sogno della repubblica romana di Cola di Rienzo. L'assedio di Firenze del 1530. Carlo V davanti alle porte di una Siena accerchiata dagli spagnoli. Il Risorgimento è stato fatto anche così: collezionando una lunga catena di sconfitte e rivincite. Quasi che non si potesse essere italiani senza aver incassato prima un grave affronto da lavare nel sangue.
Durante i miei soggiorni a Parigi del 1993-94 e del 1998-99 nessun francese mi ha vilipeso o schiaffeggiato, né sono mai dovuto intervenire per difendere l'onore di una casta italiana in pericolo. È possibile che, altrimenti, il mio nazionalismo light, da italiano del XXI secolo, sarebbe stato meno light e più bellicoso: niente di simile è successo. Anch'io ho conosciuto lo shock dell'italiano ferito nell'onore, con la medesima intensità di un contemporaneo di Cattaneo o Pisacane. Non c'è voluto molto. È bastato che, studente di lettere innamorato della Francia, facessi esperienza della marginalità della cultura italiana contemporanea appena attraversate le Alpi: tutta, compresa la più grande. Il problema non è solo francese, e non vale solo per la letteratura, dove l'Italia paga una minorità linguistica, anche se per il cinema e le arti figurative la situazione risulta un po' migliore. Nello studente di allora non è bastato questo a rendere meno triste la scoperta.
Da qualche decennio i francesi traducono qualsiasi cosa, con collane dedicate al coreano e all'albanese. E anche gli italiani (i maggiori, per lo meno) non mancano dagli scaffali delle librerie. Da questa prospettiva, ai francesi il manuale Cencelli dell'Unesco non avrebbe nulla da rimproverare. Ma se uscivi per un attimo dagli spazi ecumenicamente garantiti a ogni letteratura, ecco che il senso di irrilevanza si faceva subito tangibile. Noi italiani non c'eravamo, nonostante le scuse che cercassi di trovarmi: perché amavo troppo i francesi per non volerli giustificare pure in questo. Mai letto Fenoglio? Peccato, anche da noi si è imposto come merita solo da poco. E Gadda? Capisco, non so se ha molto senso leggerlo in traduzione: come Volponi. Nemmeno Landolfi? Eh sì, lo so, uno scrittore come lui paga l'aver dato il meglio di sé nei racconti. Alla fine rimanevano i soliti: Pirandello e Svevo (certo), Calvino e Primo Levi. Magari Lampedusa. Solo loro. A parte le incomprensibili sbandate dei francesi per uno Sciascia o per un Buzzati.
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