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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2011 alle ore 15:33.

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L'orgoglio di essere italiano - Dall'Olimpiade un salto nel futuro (Illustrazione di Manuele Fior)L'orgoglio di essere italiano - Dall'Olimpiade un salto nel futuro (Illustrazione di Manuele Fior)

Era una sera fredda e magnifica, la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Torino, il 26 febbraio 2006. Lo stadio era pieno di gente, le scenografie erano perfette. L'Italia aveva vinto meno medaglie del previsto, Giorgio Rocca, favorito allo slalom speciale era caduto dopo pochi paletti, ma pazienza! Eravamo riusciti a organizzare un evento con i fiocchi. E i torinesi, soprattutto emigrati come me, pur non avendo contribuito all'evento, erano fieri della propria città e di essere italiani. Erano fieri anche i miei figli, che avevano otto e cinque anni. Fu anche la prima volta che andarono a mangiare la pizza fuori a notte fonda, ma non solo per questo la chiusura delle Olimpiadi è entrata tra le mitologie familiari.
Le Olimpiadi sono la storia di come una città sonnolenta e depressa possa cambiare pelle attraverso eventi di straordinaria eccellenza. Come chilometri di portici fuliginosi tornino tirati a lucido e splendenti, come castelli ammuffiti vengano rimessi a nuovo e destinati a un'infinità di cose, come le statue polverose del Museo Egizio diventino una scenografia quasi vivente. Come i binari vengano interrati e la superficie trasformata in nuovi quartieri, nuove strade nuovi parchi, la metropolitana nasca e cresca, e come questo processo a poco a poco pervada la città e la sua struttura urbana. Un processo visibile di trasformazione. Insomma una strategia dell'eccellenza, che è riuscita a canalizzare milioni di euro in risorse pubbliche trasformando la città.

Ora, il problema della trasformazione visibile è la sua sostenibilità. Essere riusciti nel primo passaggio è in sé un'operazione straordinaria. Ma quanto questo rinnovamento si è trasformato in attività economiche che stiano in piedi nel tempo? I numeri non sono confortanti. Il Pil procapite è 8mila euro più basso di quello di Milano e quasi 5mila euro in meno di Bologna. In termini reali non è cresciuto per dieci anni e le Olimpiadi non hanno dato una spinta. Dopo la crisi la disoccupazione è salita al 9,4% a fine 2010, più che negli altri grandi capoluoghi di provincia del Nord. E i giovani sono spaccati a metà nella percezione del proprio futuro. In un sondaggio della Fondazione Giorgio Rota il 40% ha dichiarato ottimismo, e il 40% si è detto preoccupato.
Come è possibile conciliare la percezione di progresso della trasformazione della città e i dati che invece indicano un'economia stagnante e in difficoltà? La domanda ha molto a che fare con l'orgoglio di essere italiano, con quella serata fredda di chiusura delle Olimpiadi, con la memoria dei miei figli che non si deve fermare alla pizza. Può un momento di orgoglio nazionale, di identificazione collettiva in un evento pubblico trasformarsi in crescita e sviluppo economico? Il dibattito sul declino italiano, spesso si incaglia nella visione malinconica di un Paese con le pile scariche. E molta retorica ci spiega che se la visione fosse invece gagliarda il Paese crescerebbe di più. Torino, città in un momento di ottimistico splendore, non cresce lo stesso. Perché? Perché lo sviluppo economico viene solo in parte da infrastrutture rinnovate, da una ritrovata vocazione turistica, dalla capacità di organizzare fiere e manifestazioni di eccezione. Lo sviluppo della città deriva da fondamenti economici più profondi, che se non cambiano anch'essi non è possibile andare lontano.

Torino è al bivio tra una transizione neo-industriale e una post-industriale. Mentre la prima è radicata in una profonda tradizione manifatturiera, nell'innesto tra industria e servizi (i produttori di macchine e gli ingegneri che le progettano), la seconda invece significa l'uscita dall'industria, la reinvenzione della vocazione economica della città in qualcosa che ha poco a che fare con quello che nei decenni passati è stato la principale fonte di accumulo di ricchezza. Se la neo-industria non impedisce, anzi alimenta nuove attività, la post-industria da sola difficilmente potrebbe essere un motore sufficiente di crescita, almeno per diversi anni. La domanda è se con l'orgoglio olimpico e soprattutto gli investimenti in infrastrutture che l'hanno accompagnato si stia anche realizzando la trasformazione neo-industriale.
La capacità delle aziende di riprendere produzione ed export dopo la crisi, il consolidamento della componentistica autoveicolare, la capacità di molte imprese di stare sul mercato nonostante Fiat sono segnali positivi di una trasformazione in corso. Ma la crescita delle disoccupazione, per una forza lavoro che al 30% è impegnata nell'industria, ci indica come questa trasformazione non sia facile. I passaggi dei nuovi investimenti a Mirafiori e alla Bertone, ricordano quanto la transizione verso un'industria competitiva e flessibile possa essere dolorosa e difficile da concretizzare in una reale prospettiva di miglioramento.

Certo, la proporzione di occupati nei servizi è aumentata di almeno dieci punti percentuali negli ultimi vent'anni. Ma in un mondo fondato sulla meccanica, colletti blu e bianchi rimangono insieme, la produzione alimenta i servizi e i servizi, come la ricerca, nutrono la produzione.
La partita per rimanere un luogo di produzione di eccellenza è difficilissima. Nei prossimi anni l'industria italiana si concentrerà in un numero limitato di poli produttivi integrati, con imprese più grandi di quelle di oggi. La concorrenza globale impone alle imprese di crescere per investire in beni intangibili e per essere competitive su mercati lontani e difficili. In questo frangente è possibile perdere o guadagnare tutto: le attività produttive hanno bisogno di una massa critica minima, al di sotto della quale non conviene più produrre e tutto sparisce. Tanto maggiore invece è la presenza di attività complementari tanto più bassi sono i costi per rimanere in un determinato luogo. Da questo punto di vista le nuove infrastrutture sono utilissime.

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