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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2011 alle ore 13:40.
L'ultima modifica è del 11 settembre 2011 alle ore 17:37.

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Non credo di appartenere a quella metà di italiani che ama sparlare dell'altra metà, imputandole tutti i difetti che poi essa stessa pratica con disinvoltura. Né credo alla divisione tra gli italiani "alle vongole" e quelli "con la schiena diritta". Anche per la fastidiosa, incorreggibile e inaccettabile pretesa di questi ultimi d'insegnare ai primi come si stia al mondo.

Preferisco pensare che gli italiani siamo quello che Isaiah Berlin dice dell'umanità intera, ossia un "legno storto", da accettare con sopportazione, senza la pretesa di raddrizzarlo a colpi d'ascia. Naturalmente, riconoscere certi difetti non significa condividerli né escludere una (magari frequente) condizione di minorità: il punto è non scivolare nel disprezzo e dunque nel vagheggiare un'Italia che non esiste, il miraggio della quale ci fa vergognare di quella che c'è.
Allo stesso modo, un sentimento ragionevole non agevola un sentimento febbrile dell'italianità che sconfini nell'orgoglio: del resto, lo sport mi lascia freddo, in politica (ma non solo in Italia) c'è poco da esaltarsi, nelle arti e nella cultura domina spesso la tentazione di adagiarsi a uno spirito del tempo che soffia nella stessa direzione da Shanghai a Roma e Milano.

Ma ci sono situazioni nelle quali la ragione può conciliarsi con la passione e nelle quali sentirsi partecipi di una storia, di una tradizione e di un'esperienza che hanno contribuito a fare di noi ciò che siamo e ciò che ci sentiamo: nel bene e nel male. A me è capitato ancora di recente, lo scorso 17 marzo, in occasione del discorso alle Camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia.
Da vecchio liberale cavouriano, ero molto preoccupato che le celebrazioni scorressero via nell'indifferenza, se non nella polemica, nella divisione e nella faziosità. Temevo molto che l'ipoteca leghista condizionasse il centro-destra nella difesa di quelle che in qualunque altro sistema sarebbero le sue bandiere: il senso dello Stato, il rispetto della nazione, l'amor di patria.

E, in effetti, con la scusa delle ristrettezze di bilancio, ma in realtà per intima indifferenza e sostanziale debolezza culturale, ben poco si era fatto. C'erano stati l'impegno del presidente Ciampi; e gli sforzi del comitato presieduto da Giuliano Amato (le cui linee ispiratrici si possono ritrovare nel libro scritto a quattro mani con Paolo Peluffo Alfabeto italiano, edito da Università Bocconi) ma mi pareva che, complessivamente, un'ottima occasione stesse per essere sprecata.
Poi quel discorso: finalmente qualcuno capace di dire serenamente agli italiani che la formazione del loro Paese non fu una vessazione, un'invenzione o un raggiro, ma il frutto della «consapevolezza di basilari interessi e pressanti esigenze comuni». Nonché l'espressione di una classe dirigente ancora esente dalla dittatura dei sondaggi d'opinione (altro che disegno elitario: ne avessimo, di quelle élite!): ce n'è abbastanza per concludere che anche l'Italia può essere capace di visione.

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