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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2011 alle ore 07:56.
L'ultima modifica è del 15 novembre 2011 alle ore 07:42.

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(Afp)(Afp)

Il governo quindi prenderà forma e s'insedierà. Se poi avrà la fiducia dal Parlamento, comincerà un percorso verso un orizzonte che coincide con la fine della legislatura nel 2013. E infatti Monti ieri sera ha detto che lascerebbe solo nel caso in cui le forze politiche gli offrissero un appoggio a tempo determinato, un sostegno a scadenza. Il che non è plausibile, quali che siano le riserve mentali. Un conto è disporsi a far inciampare il governo in Parlamento quando torna comodo, un altro è dichiararlo in anticipo. Solo Di Pietro è così sincero.

Il secondo punto di forza è l'opinione pubblica. La gente è in larga parte a favore del professore milanese. Lo conosce poco, ma apprezza d'istinto il suo stile severo, l'eloquio essenziale e appropriato, l'immagine di competenza e di rigore morale che lo accompagna nelle prime frequentazioni dei palazzi romani. Per un uomo che non dispone di forza politica, avere dalla sua il grande pubblico è fondamentale.
E questo spiega forse certi appuntamenti inseriti in agenda, con i giovani e le donne. Data l'urgenza della crisi e la difficoltà di comporre il quadro generale, tali incontri potrebbero apparire superflui o fuorvianti. Ma si giustificano con l'attenzione che Monti deve al suo alleato: l'opinione pubblica.

Terzo punto di forza, il sostegno assiduo del presidente della Repubblica. Napolitano segue passo passo i lavori in corso a Palazzo Giustiniani. È attento a evitare qualsiasi invasione di campo, ma non è certo avaro di consigli e suggerimenti. Il momento è 'cruciale', ripete. La sua pressione sui partiti, affinché agiscano in una logica concorde, è continua quanto discreta. Allo stesso modo, Monti continua a godere della simpatia di tutte le cancellerie occidentali, che vogliono vederlo al più presto nella pienezza dei poteri alla guida dell'esecutivo.

Vediamo invece i punti di debolezza. Il principale riguarda la mancanza di qualsiasi slancio verso l'unità nazionale. Non a caso Napolitano insiste sul tema della 'coesione': per la buona ragione che ce n'è troppo poca. La contraddizione di Monti consiste nel trovarsi alla testa di un governo d'emergenza, e quindi di unità, senza che i partiti lo seguano su questo terreno. Non si parla di un patto politico vecchio stile, ma in vista non c'è nemmeno un gesto formale, un armistizio dichiarato fra centrodestra e centrosinistra.
Il secondo punto di debolezza discende dal primo. Monti vorrebbe nella squadra ministeriale alcuni esponenti politici dei maggiori partiti (e con lui, possiamo immaginare, il Quirinale). Esponenti di primo piano indispensabili per rafforzare il rapporto fra il governo e le Camere, fra l'esecutivo dei 'tecnici' e la sua base parlamentare.

Niente da fare, a quanto sembra. Pdl e Pd non sono d'accordo su niente, ma su una cosa sì: rifiutare a Monti un profilo politico del governo che aiuterebbe a definire lo sforzo collettivo e vincolerebbe un po' di più le forze politiche a un sostegno non solo retorico (tutto è cominciato dal veto opposto dai democratici in nome della 'discontinuità' a Gianni Letta, uomo delle istituzioni e grande conoscitore della macchina dello Stato: un errore che forse sarà rimpianto).
Occorrerebbe che oggi, durante l'incontro con Pdl e Pd, Monti mettesse le carte in tavola e chiedesse con forza un impegno nel governo di alcune personalità politiche. Come garanti di una linea. Anche perché, ed è il terzo punto, la fiducia dei mercati verso la novità italiana non è eterna, se appena si accorgono della relativa fragilità di una compagine solo 'tecnica'.

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