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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2012 alle ore 10:19.
L'ultima modifica è del 16 giugno 2012 alle ore 10:40.

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Il cancelliere tedesco Konrad Adenauer e il ministro degli Esteri francese Robert Schuman in un incontro a ParigiIl cancelliere tedesco Konrad Adenauer e il ministro degli Esteri francese Robert Schuman in un incontro a Parigi

È questa memoria, innanzitutto, che impone di non desistere dal fare ogni possibile sforzo per dare risposte convincenti ai problemi pur gravi del presente. Risposte in grado di rimediare a errori e insufficienze del passato e di porre premesse solide per progredire nella direzione che sappiamo essere la sola per la salvezza del Vecchio Continente e del suo immenso patrimonio di civiltà, dei Paesi che lo compongono, dei popoli che lo abitano: l'unione politica dell'Europa.

La "lezione degli Stati Uniti"
In questo momento appaiono esasperate - persino incolmabili - le differenze che separano la periferia dal centro dell'Europa; differenze che sembrano dar ragione dello scetticismo di alcuni - fra questi non pochi economisti e opinionisti accreditati - sulla fattibilità di una Europa unita. Un sentimento, lo scetticismo, quasi mai estraneo alle realizzazioni ardite, forse per un difetto di "vista" o forse di coraggio. Altiero Spinelli, in un convegno nel lontano 1957, ne segnalava esempi illustri nella diffidenza dell'economista Josiah Tucker e nel dubbioso interrogarsi dell'incaricato di Francia in America, Louis Guillaume Otto, entrambi assai poco convinti delle possibilità di riuscita della giovane America. Il primo nel 1786 affermava: «Quanto alla futura grandezza dell'America e dell'idea che essa possa mai diventare un possente impero sotto una testa, sia monarchica o repubblicana, questa è una delle utopie più folli e più visionarie che siano mai state immaginate da scrittori di romanzi. Le antipatie reciproche e gli interessi opposti degli Americani, le loro differenze di governi, di abitudini e di costumi provano che non avranno alcun centro di unione o di interesse comune. Mai potranno essere uniti in un impero compatto sotto qualsiasi forma di governo: gente disunita fino alla fine dei tempi, pieni di sospetti e diffidenze degli uni verso gli altri, saranno divisi e suddivisi in piccole comunità o principati, secondo le loro frontiere naturali, i grandi golfi e i vasti fiumi, i laghi e le catene di montagne». Quanto al diplomatico francese, egli scriveva al suo governo: «Gli Stati si lasceranno spogliare di parte della loro sovranità?...La loro politica ispira loro reciprocamente avversione e gelosia...questi repubblicani non hanno più Filippo alle porte!».

La questione europea va ricondotta nel suo alveo naturale che, come ha ricordato qualche giorno fa dalle colonne di questo giornale Helmut Schimdt con chiarezza e franchezza, è quello politico. Politiche sono infatti, scrive Schmidt, le motivazioni sottostanti al progetto dell'Unione. Mostrando realismo, senso della storia e capacità di affrontare il nuovo, le sue considerazioni rimandano a quelle dei Padri fondatori, Adenauer, Monnet, Schuman, Spaak, De Gasperi, i quali convennero sull'esigenza di costituire una comunità di Stati europei per scongiurare il ripetersi di distruzioni catastrofiche, ma anche per inserire (nell'articolo ricordato Schimdt non teme di ricorrere al termine imbrigliamento) la Germania in una unione e impedire il ripetersi di avventure egemoniche.

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