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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2012 alle ore 06:41.

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Giugno 1991, Nicotera. Questa cittadina di seimila abitanti in provincia di Vibo Valentia è il regno della 'ndrina Mancuso che sulle rotte dei cartelli colombiani del narcotraffico ha creato un impero economico in grado di corrompere tutto e tutti.

È una giornata calda e non solo per la temperatura. È la prima volta che a Nicotera si riunisce - in un luogo al riparo da occhi indiscreti e sorvegliato a vista - il gotha di Cosa Nostra e quello della 'ndrangheta. Da una parte i Corleonesi di Totò Riina, dall'altra le famiglie Commisso, Aquino, Pesce, Piromalli, i padroni di casa Mancuso, Ficara, Latella, Tegano, Condello, Rosmini e Imerti.

La regìa dell'incontro è della cosca De Stefano di Reggio Calabria che con questa diabolica trama sancirà la progressiva e rapida scalata della 'ndrangheta nell'empireo della criminalità economica mondiale. Una trappola nella quale Cosa Nostra cade perchè obbligata. È a Nicotera perchè in posizione di debolezza: dopo aver provato invano a corromperlo, deve far fuori il giudice calabrese Antonino Scopelliti, che nella quiete della sua casa a Campo Calabro, a due passi da Reggio, sta preparando, in sede di legittimità, il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Non possono azzardare omicidi in Calabria e così in cambio del "favore" chiesto ai calabresi, i Corleonesi avrebbero contribuito a pacificare le famiglie reggine che con la seconda guerra di mafia, tra il 1985 e il 1991, avevano lasciato sul campo 700 morti.

A quella prima riunione di dichiarazioni di intenti ne seguirono a stretto giro altre, questa volta nella frazione Bosco di Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro, dove comandano i Pesce. Lì viene messa a punto la strategia condivisa del terrore che porterà, come prima tappa della stagione stragista, all'uccisione a Campo Calabro, il 9 agosto 1991, del giudice Scopelliti. Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, spararono con un fucile calibro 12 caricato a pallettoni. La morte del magistrato, colpito con due colpi alla testa esplosi in rapida successione, fu istantanea.

Punto e a capo: da quel giorno la cosca De Stefano - che aveva già capitalizzato l'intelligenza criminale di Giorgio De Stefano, un avvocato che alla famiglia fece scalare la Reggio bene e i salotti romani - abbandonerà al proprio destino la strategia stragista di Cosa Nostra che tra il '92 e il '93 seminerà orrore e sangue e richiamerà su di sè la forza repressiva dello Stato in Sicilia. I De Stefano - ancora una volta - ci avevano visto giusto: Cosa Nostra a quel punto era una fiera in gabbia, la 'ndrangheta reggina una stella in ascesa.

A raccontare questi e altri dettagli al magistrato della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che anche per questo sta rischiando oltre il limite la sua vita già blindata, sono due pentiti, che hanno obbligato la Procura a riaprire le indagini di un omicidio per il quale sono stati anche celebrati due processi presso la Corte d'Appello dello Stretto. Il primo ha visto alla sbarra Totò Riina e altri 13 boss della cupola di Cosa Nostra. In primo grado, nel '96, venne emessa una sentenza di condanna poi tramutata in assoluzione in appello nel 2000. Il secondo processo venne intentato contro Bernardo Provenzano e altri nove componenti della cosiddetta Commissione regionale siciliana, tra i quali Pippo Graviano e Nitto Santapaola.

Per questo secondo filone di indagine tutti i mafiosi vennero condannati nel 1998, per essere poi assolti ancora nel 2000 per discordanze nelle dichiarazioni dei 17 pentiti di mafia e ‘ndrangheta interpellati, il più pericoloso dei quali era Giovanni Brusca, "'u verru", il "porco", il macellaio che azionò il telecomando della strage di Capaci in cui il 23 maggio 1992 morirono Giovanni Falcone, la moglie e la loro scorta. L'asse criminale Cosa Nostra-'ndrangheta finalizzato all'uccisione del giudice e non solo, non è stato dunque mai provato processualmente.

Il primo pentito che sta raccontando quel che conosce è l'ex braccio destro di Giuseppe De Stefano, Nino Fiume. Il 14 luglio, bloccato in tempo dal pm Giuseppe Lombardo che lo stava interrogando nell'ambito del processo Meta nel quale sta mettendo a fuoco la cupola mafiosa che governa Reggio e la Calabria composta oltre che dalle cosche, da pezzi deviati dello Stato, della massoneria e dei servizi segreti, ha fatto in tempo a dire che a uccidere il giudice erano stati tre destefaniani. Due furono già "attenzionati" a fine anni Novanta dalla magistratura. Uno sparì subito dalla scena giudiziaria e per l'altro, killer legatissimo ai De Stefano, arrivò l'assoluzione.

La reazione di Peppe De Stefano, che ricopre la carica di "crimine", vale a dire "mammasantissima" di 'ndrangheta, al 41-bis nel carcere di Tolmezzo (Udine), è stata dura: «Un pupo ammaestrato» ha detto riferendosi al suo ex braccio destro che il 20 aprile 2011, in un interrogatorio nel carcere milanese di Opera, da lui richiesto, davanti all'ex capo della Procura di Reggio Pignatone Giuseppe e allo stesso Giuseppe Lombardo, definì sprezzantemente "Nino House il ballerino".
Chissà come schiumerà di rabbia Peppe De Stefano nell'apprendere oggi che un secondo professionista prestato alla 'ndrangheta, che non può uscire allo scoperto pubblicamente, ha deciso di ribadire la verità sull'omicidio del giudice. Una verità già raccontata nel febbraio 2003 alla Direzione distrettuale di Catanzaro in verbali di cui non c'è più traccia e ribadita nell'agosto 2007 alla Dda di Reggio che lo ascoltò presso la sede Dia di Roma ma che non volle approfondire l'argomento.

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