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Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2013 alle ore 06:40.

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L'ironia della sorte è che, a quanto risulta dalle dichiarazioni dello stesso Ferrari e dall'indagine che sta conducendo la Procura di Bolzano, a propiziare l'incontro tra il medico e l'atleta era stato Pietro Ferrero, l'amministratore delegato dell'azienda produttrice della Nutella deceduto nell'aprile 2011. Quando abbiamo chiesto alla Ferrero se per questo motivo ritiene di avere una qualsiasi responsabilità nella vicenda, la risposta è stata "certamente no." L'azienda ha aggiunto di non essersi "mai interessata alla preparazione degli atleti sponsorizzati", né di aver "mai dato valore agli aspetti di mera competizione, privilegiando, invece, lo sviluppo e la diffusione fin dall'età giovanile della pratica sportiva come sano e corretto stile di vita."

«Negli ultimi anni il movimento antidoping ha capito la necessità di andare oltre l'atleta, e arrivare ai facilitatori», dice il dottor Michael Ashenden, un ematologo australiano consulente della Wada, l'agenzia mondiale anti-doping. «Ma secondo me non basta fermarsi a chi fornisce un aiuto diretto, bensì prendere in considerazione anche agenti e sponsor, perché con il loro supporto passivo contribuiscono al problema».

L'ex ciclista tedesco Jörg Jaksche è uno dei pochi professionisti disposti a rompere l'omertà che da decenni impedisce di affrontare seriamente il problema del doping nel ciclismo. Lui condivide in pieno l'analisi di Ashenden. «Ogni nuovo scandalo di doping segue lo stesso percorso: quando qualcuno viene beccato, il sistema si dimostra schoccato, dichiara l'assoluto rigetto del doping e dipinge l'atleta come una pecora nera che merita di essere mandata al macello. Dopodiché, ogni cosa continua come prima. Ma la realtà è che macellano un capro espiatorio, non una pecora nera. E che nessuno guarda mai alle responsabilità dei pastori. Mi riferisco a coloro che stanno ai livelli superiori, quelli che governano gli sport e soprattutto quelli che alimentano tutto con i propri soldi, cioè gli sponsor».

Secondo Jaksche, per questi ultimi il sistema non ha svantaggi. «Gli sponsor traggono enormi benefici commerciali dalla visibilità offerta da performance eccezionali. Nel caso di un doping accertato, si limitano a dichiarare il loro disappunto. Ottengono così altra pubblicità dimostrandosi assolutamente irreprensibili. Insomma, ci guadagnano comunque. Ecco perché il sistema non è mai cambiato».

Jaksche oggi studia economia all'Università di Innsbruck, in Austria. Questi studi lo hanno aiutato a capire meglio la sua esperienza nel ciclismo: «Sponsorizzando uno sport, come in qualsiasi altra sua attività, un'azienda punta al massimo ritorno sull'investimento. Nello sport, le vittorie forniscono quel ritorno. E il doping aumenta le probabilità di vittoria. Perciò, direttamente o indirettamente, il messaggio all'atleta è chiaro: vogliamo che tu vinca, e per vincere puoi fare quello che vuoi. Basta che non ti faccia beccare».

La squadra ciclistica a cui apparteneva Jaksche era sponsorizzata dal colosso delle telecomunicazioni tedesche Deutsche Telekom/T-Mobile. Nel 1997 l'allora leader del team, Jan Ullrich, divenne il primo tedesco a vincere il Tour de France. Meno di due anni dopo, il settimanale Der Spiegel pubblicò un'inchiesta in cui scrisse che Ullrich e il suo team avevano fatto uso sistematico di doping. «Avevamo appena finito il Tour di Germania e stavamo andando in auto verso la Svizzera per partecipare al Giro elvetico quando uscì il pezzo di Der Spiegel», ricorda Jaksche. «Io ero in macchina con Ullrich e l'addetto stampa che Deutsche Telekom ci aveva dato, e ricordo che non dimostrò alcun interesse ad accertare se le accuse fossero vere o false. Né lui né altri fecero mai nulla per verificarle. Anzi, penso presupponessero fossero vere, perché le uniche contromisure che presero furono di assicurarsi che nessuno di noi dicesse niente di compromettente. Insomma, omertà a tutta birra. La ragione? Con il successo di Ullrich al Tour, a Deutsche Telekom un investimento relativamente piccolo aveva portato un enorme ritorno di marketing. Si era dimostrato un modello di business straordinario e non volevano cambiarlo. O peggio mandarlo a monte».

In seguito, lo stesso Jaksche risultò coinvolto in uno scandalo di doping e fu chiamato a testimoniare. Nella sua deposizione rivelò che il doping era prassi per il team: i ciclisti che volevano Epo, steroidi od ormoni della crescita non dovevano fare altro che rivolgersi ai medici della squadra. A suo dire lo stesso manager, Walter Godefroot, sapeva. Nessuno chiese a Jaksche se lo sponsor fosse informato o meno, ma la procura di Ansbach, in Baviera, aprì un procedimento contro di lui per frode. E nel chiederne l'archiviazione, fu lo stesso procuratore a concludere che le parti in causa - il team e lo sponsor - non potevano non sapere del suo doping.

Contattata dal Sole 24 Ore, Deutsche Telekom ha dichiarato di condannare l'uso di doping:"Per questo, nel 2007 abbiamo deciso di interrompere il nostro impegno nel ciclismo, essendoci resi conto come sponsor che il mondo del ciclismo non era in grado di far fronte a questo problema". Sull'utilizzo di sostanze dopanti nella sua stessa squadra, Deutsche Telekom ha poi detto di non "esserne mai venuta a conoscenza".

In Germania venne creata un'apposita commissione d'inchiesta per indagare sulla vicenda. Nel suo rapporto finale si legge che era stato impossibile determinare il grado di consapevolezza del management di Deutsche Telekom/T-Mobile, ma il gruppo viene comunque pesantemente criticato. "Allo sponsor non interessava avere una squadra senza doping... E il contratto di sponsorizzazione venne rescisso solo quando la squadra non sembrava più in grado di valorizzare l'immagine dell'azienda", si legge. "Questo limite non fu raggiunto quando i due atleti di punta - Jan Ullrich e Oscar Sevilla - furono sospesi. Né quando fu sospeso anche Sergie Hinchar o quando Patrick Sinkewitz risultò positivo al test del sangue. Si è dovuto aspettare fino al 27 novembre 2007 perché Deutsche Telekom annunciasse la decisione del suo consiglio di amministrazione di rescindere la sponsorizzazione. Motivo: il gruppo, impegnato nel ciclismo dal 1991, aveva stabilito di investire i propri soldi altrove".

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