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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2013 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 29 gennaio 2013 alle ore 09:36.

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LAVORARE DI PIÙ, LAVORARE TUTTI
L'aumento di 40 ore dell'orario annuo di lavoro, remunerate al netto di Irpef e contributi sociali, per i dipendenti, e di contributi sociali e Irap, per le imprese, è un segnale e un affare per tutti. Segnale di impegno a rimboccarsi le maniche per risollevare il Paese. Affare perché vale, dopo cinque anni, un aumento dell'1,3% di Pil reale (pari a 20,4 miliardi ai prezzi di oggi), di cui lo 0,5% già nel 2014.
Tutto guadagno di produttività che va a scapito dell'occupazione? No, perché la maggior domanda innescata dall'aumento della busta paga che vale doppio (essendo esentasse) e la maggiore competitività (da alleggerimento del costo del lavoro ed efficienza) generano 41mila persone impiegate aggiuntive nel 2014 e almeno ulteriori 3mila entro il 2018.
Un lieto fine contro intuitivo, rispetto al luogo comune secondo cui "aumentare l'orario individuale di lavoro è la forma più anti occupazionale che possa esistere", per dirla con Maurizio Landini, leader della Fiom. Un luogo comune che si basa su una visione statica del funzionamento dell'economia, secondo la quale i posti di lavoro sarebbero un "numero chiuso", perciò si può conquistarne uno se e solo se viene lasciato libero, per esempio da chi va in pensione o lavora meno ore a parità di salario. Ma così non si dà soluzione alla disoccupazione perché si aumenta il costo del lavoro e perciò lo si rende meno impiegabile, direttamente e indirettamente (via minore competitività).

PIÙ IVA UGUALE MENO CONSUMI?
Dipende da come si utilizzano le risorse generate dal maggior gettito. Se per tappare un deficit, allora l'effetto recessivo è assicurato. Se per abbassare l'Irpef sui redditi bassi da lavoro e a mettere più soldi in tasca agli incapienti (le persone che guadagnano così poco da essere esentate dal pagamento dell'imposta sul reddito), allora i consumi aumentano perché si verifica una redistribuzione di potere d'acquisto a favore delle classi sociali più disagiate.
Il progetto Confindustria fa esattamente questo: destina quasi i due terzi derivanti dall'innalzamento per due punti delle aliquote Iva ridotte (quella del 4% al 6% e quella del 10% al 12%) all'aumento del reddito disponibile di quanti hanno bilanci familiari magri e dunque hanno una maggiore propensione alla spesa. Considerato che, in ammontare assoluto, il valore degli acquisti di beni la cui Iva viene innalzata è imputabile solo in parte alla spesa di queste famiglie, per loro il danno dell'aumento dell'Iva è più che compensato dalla rimodulazione dell'Irpef.
In aggiunta, ad esse sono destinati dal progetto Confindustria anche i maggiori incassi ottenuti con la lotta all'evasione, cosicché già dal 2016 riceveranno una cifra addirittura superiore alla maggiore Iva pagata da tutte le famiglie e dal 2018 il raffronto sarà tra 7.204 euro di incassi derivanti dall'innalzamento dell'Iva e 11.399 di più elevato reddito spendibile per i lavoratori con bassi redditi.

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