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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2013 alle ore 07:11.
Vi è stata dunque una cospicua ritenzione di utili che è stata assicurata anche dalle norme statutarie che dispongono, entro la capienza del risultato, accantonamenti del 20% alla riserva ordinaria e del 20% a quella straordinaria. La saggia «prudenza» della nostra banca centrale è dimostrata anche dalla misura del fondo rischi generali: 13 miliardi di euro, da noi non considerato patrimonio netto (anche se ne ha la stessa natura, fronteggiando un generico rischio d'impresa). Per confronto, la Banque de France, che a fine 2012 esibiva un totale attivo superiore del 20% a quello della Banca d'Italia (percentuale che scende al 14% per la circolazione), ha stanziato allo stesso titolo solo 5,75 miliardi, la Deutsche Bundesbank (la più grande) 14,4 miliardi: importo pari all'1,4% del totale attivo contro il 2,2% della Banca d'Italia. Come già ricordato, la Bank of England non iscrive alcun importo a questo titolo nel suo bilancio, mentre il Banco de España vi contabilizza 7,8 miliardi.
Tornando agli utili, nei 14 anni di vigenza dell'euro la Banque de France ha dichiarato ben 18 miliardi di utili netti, e cioè il 137% in più della Banca d'Italia (tabella 2); ha distribuito allo Stato francese 12 miliardi a titolo di dividendo e 14 miliardi per imposte sul reddito; in totale 26 miliardi di euro (5,6 volte il corrispondente importo della Banca d'Italia). Dobbiamo dunque ritenere che i dirigenti transalpini abbiano sentito un «maggior» bisogno di sostenere le casse pubbliche. Veniamo infine alla Deutsche Bundesbank, la quale beneficia della prerogativa di non essere soggetta all'imposizione sul reddito. Ciò non le ha però impedito di dichiarare nei 14 anni qui considerati utili netti per 55 miliardi di euro che sono stati interamente distribuiti allo Stato (circa 12 volte le erogazioni della Banca d'Italia). La ritenzione degli utili è quindi stata nulla; infatti, contrariamente allo statuto della nostra banca centrale (che prevede accantonamenti a riserva per il 40% dell'utile dichiarato «vita natural durante»), lo stato tedesco ha disposto per la sua banca centrale accantonamenti solo sino al raggiungimento del valore del capitale. Poiché tale capitale è stato fissato all'esiguo importo di 2,5 miliardi, le riserve lo eguagliavano già quando l'euro è partito nel 1999 (anzi, così fu sin da quando fu approvato per legge quello statuto, e cioè nel 1997). A puro titolo di curiosità, il capitale di 5 miliardi di vecchi marchi convertito in euro dava una cifra scomoda di 2.556 milioni che nel 2002 si è provveduto ad arrotondare (ovviamente al ribasso) a 2.500 milioni, riducendo di altrettanto le riserve statutarie: quella modesta diminuzione (113 milioni di euro), ça va sans dire, è stata riversata allo Stato. La banca centrale tedesca ci riserva un'altra curiosità. Tra il 1999 e il 2012 ha venduto al governo federale 3 milioni di once dell'oro che deteneva affinché questo potesse coniare un milione di monete d'oro (ma gliene restano 112 milioni); la vendita è avvenuta «a prezzo di mercato», ma per effetto sia della plusvalenza che del rilascio di un fondo stanziato a copertura di eventuali oscillazioni di prezzo del prezioso metallo, il conto economico ha beneficiato di una cifra superiore. Ad esempio, nel 2012 sono stati venduti quasi 5 mila kg per un valore di 200 milioni di euro; tale operazione ha portato al conto economico 204 milioni di euro; questo aumento dell'utile netto è stato interamente distribuito allo stesso Stato, il quale, dunque, ha di fatto prelevato a costo nullo l'oro di cui aveva bisogno.
4. Bankit, Bankoro spa e le Bankom
Tenuto conto dei caveat di questo tipo di analisi, i dati esposti dimostrano che la nostra banca centrale «soffre» di un eccesso di patrimonio ed è logico che tale «eccesso» sia risolto a favore dello Stato italiano e dei suoi cittadini che quel patrimonio hanno consentito di accantonare. Così si può anche confermare l'affermazione, un po' demagogica, «l'oro è del popolo»! Tornando allora all'operazione Bankoro con dati aggiornati, essa potrebbe avvenire con due modalità complementari riferite al 94,33% delle quote in quanto Inps e Inail, essendo enti pubblici, con una partecipazione complessiva del 5,67% potrebbero restare nel capitale di Bankit. Le quote da allocare sono dunque 283.000. La Banca d'Italia potrebbe comperare il 5% delle quote (buyback diretto) mentre il rimanente nella misura dell'89,33% dovrebbe essere rilevato (buyback nazionale) da una società finanziaria - che chiameremo Bankoro spa - appositamente costituita dal Tesoro. Sulla base del patrimonio netto, la Banca d'Italia dovrebbe pagare per il buy-back diretto un massimo di 1,2 miliardi di euro al qual fine una modesta parte della riserva da rivalutazione dell'oro (80 miliardi a fine 2012) potrebbe essere usata per annullare le azioni così rilevate. Per il restante 89,33% andrebbe pagato un controvalore massimo di 21 miliardi di euro. Se la Banca d'Italia trasferisse il proprio oro a un'entità controllata, le riserve da rivalutazione auree sarebbero realizzate e assoggettate a imposta (Ires, aliquota del 27,5%). Valutando prudenzialmente il prezzo di mercato dell'oro avendo per riferimento la media dell'ultimo triennio (intorno a 1.150 euro/oncia) l'imposta da versare ammonterebbe a circa 20 miliardi di euro, addebitabile contabilmente alla riserva aurea di cui assorbirebbe, comprendendo il buyback diretto, meno del 30%. I 20 miliardi di gettito erariale potrebbero essere usati dal MEF per un aumento di capitale della Bankoro spa che disporrebbe quindi dei mezzi per acquistare il controllo dell'89,33% del capitale della Banca d'Italia. Le banche venditrici delle quote Banca d'Italia trarrebbero vantaggi in termini di rafforzamento patrimoniale. I grandi beneficati sarebbero due Bankom (Banche Commerciali) e cioè i gruppi Intesa Sanpaolo e Unicredit per i quali la plusvalenza supererebbe, rispettivamente, i 9,4 e i 4,9 miliardi nel caso in cui la valutazione equivalesse al patrimonio netto pro-quota. Le plusvalenze, tenuto conto della loro origine, potrebbero essere vincolate per almeno un triennio in una riserva apposita e la stessa potrebbe essere in sospensione di imposta sino a quando non fosse in qualche modo utilizzata, ad esempio per distribuzioni ai soci.
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