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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2014 alle ore 06:55.
L'ultima modifica è del 15 maggio 2014 alle ore 09:32.

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Napoli siccome immobile s'intitola il libro scritto dal filosofo Aldo Masullo nel 2009, ai tempi in cui l'inquilino di Palazzo San Giacomo si chiamava Rosetta Jervolino. Napoli siccome immobile potrebbe essere un format che attraversa stagioni politiche, epoche storiche, persino secoli, se pensiamo alle esibizioni laurine. Così come la Napoli dei vicerè salvifici, da Bassolino a De Magistris, segna lo scorrere degli anni in una città senza tempo.
Napoli doveva essere la Barcellona italiana e invece è la nostra Caracas. Una città grumosa, sporca, sciatta che espone senza pudore - e forse in questo risiede il suo fascino - i suoi colpi a vuoto, la sua sconcezza e, allo stesso tempo, l'inarrivabile bellezza di cui si gode da via Partenope, il lungomare restituito (ma anche sottratto) ai cittadini e, nei week end, all'esercito di vu cumprà.
De Magistris voleva «scassare», e quel verbo che fece il giro d'Italia all'indomani della sua elezione dopo tre anni si ritorce contro di lui: Napoli è una città scassata, disseminata di gioielli - dall'Albergo dei poveri dell'architetto Fuga all'area flegrea punteggiata dalle ciminiere di Bagnoli - che come un metronomo segnano il fallimento di tutte le politiche dispiegate (si fa per dire) fino ad oggi.

L'invito al viaggio potrebbe cominciare da est o da ovest. Nulla cambia in termini di degrado. Fuorigrotta è il biglietto da visita dell'area occidentale. Un quartiere che con le propaggini di Soccavo, Pianura e Bagnoli conta 250mila abitanti. Lo stadio - oggetto di una vertenza pluriennale tra il presidente De Laurentiis e il Comune di Napoli e di progetti di ristrutturazione controversi - è un monumento alle sorti magnifiche e progressive di un'Italia liquefatta come il sangue di San Gennaro. Così la Mostra d'Oltremare, che sorge poco più in là, voluta da Mussolini per celebrare le conquiste coloniali. Tutto sembra un fermo immagine dell'epoca laurina. Davanti i cancelli sbarrati di Edenladia, la Gardaland partenopea, il primo parco a tema realizzato in Europa, campeggia un Sos: «Non possono finire così 50 anni di storia». Più avanti il cinodromo, dove fino a vent'anni fa 280 levrieri correvano dietro una lepre meccanica. A poche decine di metri le macerie del Palazzetto dello sport, teatro delle gesta vittoriose del Napoli basket. Quattro anni prima del cinodromo (1991) si spengono le ciminiere di Bagnoli: una storia infinita pure questa, con una bonifica mai completata, la società che doveva ricostruire l'area - Bagnolifutura - in bilico fra liquidazione e fallimento. I tecnocrati della premiata ditta Bassolino & Iervolino decidono di costruire, sempre con soldi pubblici, una zona termale e l'ennesimo centro congressi (a pochi chilometri dalle Terme di Agnano e dai centri congressuali della Città della Scienza e della Mostra d'Oltremare) completati e mai inaugurati. Le nuove e le vecchie opere marciscono al sole. Al culmine del loro delirio di onnipotenza, con i quattrini degli altri, progettarono una foresta impenetrabile di 120 ettari all'interno della vecchia acciaieria. Ci si aspettava una pioggia di offerte dai più grandi albergatori del mondo. Invece è stata scena muta. Ora il Comune intende correre ai ripari e smontare la variante al piano regolatore all'area occidentale voluta da Vezio de Lucia, l'urbanista bassoliniano che mummificò la città e bollò di simonìa, dunque di essere un demonio, chiunque si opponesse al suo piano urbanistico. Carmine Piscopo, l'architetto napoletano chiamato da De Magistris al capezzale della città solo un anno fa (su 12 assessori il sindaco ne ha sostituiti dieci in tre anni) promette che il nuovo ridisegno di Bagnoli, a cubatura invariata, attirerà l'interesse degli investitori italiani e stranieri che finora hanno disertato le gare d'appalto.

Il quadro è desolante: la crisi azzanna, la città s'impoverisce, le partecipate rimangono un carrozzone costosissimo e inefficiente, mentre falliscono uno dietro l'altro i grandi progetti che avrebbero dovuto restituire a Neapolis lustro e lavoro. Le vicende del Forum delle culture 2013, un marchio posseduto dalla città di Barcellona e ceduto in affidamento al bassoliniano Nicola Oddati, raccontano meglio di un pamphlet le convulsioni partenopee. Doveva essere una grande rassegna internazionale capace di riportare Napoli ai fasti del G7 del 1994, una sorta di Olimpiadi della cultura. Si vagheggiava una pioggia di finanziamenti statali, fino a 150 milioni, con i quali mettere mano anche a opere infrastrutturali. Oddati e i suoi, per preparare l'evento, cominciano a viaggiare per il mondo. Spendono tanto e rendicontano poco o nulla. Nel frattempo, il governo derubrica il Forum da manifestazione nazionale a regionale, tagliando progressivamente i fondi. De Magistris ci mette del suo. Prima nomina Roberto Vecchioni (che si dimette), poi l'ambasciatore Francesco Caruso (che si dimette), infine Sergio Marotta (che si dimette). Se ne va dal comitato scientifico anche Peppe Barra, un'icona della musica partenopea. Non c'è un progetto, mancano gli impiegati, la cassa è a corto di quattrini.

Scocca il 2013, la data del Forum. Gli organizzatori sono costretti a spostare l'evento dalla primavera all'autunno del 2014. Uno scuorno, come si dice a Napoli, per una manifestazione già inserita in calendario nel lontano 2008. Fuori tempo massimo, Caldoro e De Magistris si decidono a usare il pugno di ferro: commissariano il Forum e conferiscono pieni poteri al commercialista Alessandro Puca. Non funziona neanche stavolta. E pochi giorni fa rimuovono Puca, che a sua volta ricorre al Tar, per presunte irregolarità contabili. Una farsa. Il neodirettore del Corriere del Mezzogiorno, Antonio Polito, li chiama «i caduti del Forum». Ecco allora che arriva il decreto di nomina dell'ultimo commissario, Daniele Pitteri, uno che di mestiere organizza eventi culturali. A lui toccherà spendere i 16 milioni stanziati per la manifestazione, 11 per Napoli e cinque per il resto della Regione, ma in cassa al momento ce ne sono solo due. Risultato: i catalani sono così irritati per come è stato maltrattato il marchio che potrebbero chiedere i danni. Così finisce l'alleanza tra la Barcellona autentica e quella putativa. Si spara alto, poi si precipita tra le umane miserie e gli spaventosi limiti organizzativi.

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