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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2011 alle ore 13:59.

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Cento anni fa, lunedì 4 dicembre 1911, l'esploratore norvegese Roald Amundsen annotava sul suo diario: «Il vento è calato – dopo aver soffiato con la forza di una tempesta da SE a N. Si è calmato ed è tornato il sereno. Siamo usciti senza perdere tempo e ci siamo messi in marcia. Dapprima abbiamo dovuto attraversare la sala da ballo del Diavolo. Puro ghiaccio levigato con crepacci pieni di neve qua e là».

Non molto lontano, eppure a una distanza ormai insormontabile, in quel cerchio bianco e vuoto che era allora l'Antartide, il suo rivale inglese scriveva: «è assolutamente impossibile andare avanti con questo tempo, e nessuno sa trovare una spiegazione per quello che sta succedendo. Ieri notte il barometro è salito da 29,4 a 29,9, un aumento fenomenale.

Evidentemente c'è un grosso sconvolgimento nelle condizioni atmosferiche». Dodici giorni dopo, sabato 16 dicembre, i taccuini del norvegese riportano: «Domani partiremo per il punto esatto del polo, a 5 miglia nautiche e ½ da qui. Adesso abbiamo cibo per noi uomini per 18 giorni, 10 giorni per i cani. Credo che arriveremo senza problemi al nostro deposito agli 88° 25', e da lì al deposito sul Ghiacciaio del Diavolo. È davvero interessante vedere il sole che si muove in cielo per così dire alla stessa altezza giorno e notte. Credo che siamo i primi uomini a vedere questo spettacolo singolare». E ancora, il giorno dopo: «Ecco qui il polo Sud – un'enorme distesa piatta, non si vede una sola irregolarità. Il sole gira attorno all'orizzonte praticamente sempre alla stessa altezza e splende e scalda da un cielo senza nuvole. Questa sera l'aria è ferma e c'è una tale pace».

È la cronaca della conquista del Polo Sud, sola terra incognita, traguardo simbolico che segna la fine di un'epoca: ultimo baluardo delle esplorazioni terrestri, prima del salto nello spazio e dell'allunaggio. Con quelle frasi lapidarie Amundsen «cattura l'essenza di ciò che significa essere sul polo terrestre. E dimostra – come non aveva mai fatto in pubblico – di non credere che né Cook né Peary avessero raggiunto il Polo Nord», scrive Roland Huntford - lo storico che ha distrutto il mito del Capitano Scott, quintessenza dell'eroe britannico - nell'appena pubblicato "Race. Alla conquista del polo Sud",(Cavallo di Ferro, pagg. 416, euro 23), uno dei testi più interessanti usciti nell'occasione del centenario della storica impresa.

Il libro pubblica in parallelo, giorno dopo giorno, i diari commentati di Scott e Amundsen (entrambi nella versione integrale), in modo che i due protagonisti che non si incontrarono mai di persona, si confrontino sulla pagina scritta. In aggiunta, viene affiancato anche il diario, schietto, ironico e colorito, di Olav Olavson Bjaaland, campione di sci e compagno di Amundsen in quella che i due consideravano come una sorta di competizione sportiva, una gara di sci estrema.

«Nell'età dell'imperialismo, gli inglesi, con l'impero più grande del mondo, volevano aggiungere il Polo Sud ai loro domini, i norvegesi, da poco indipendenti, vedevano nelle terre polari l'opportunità di costruirsi un impero tutto loro» osserva Huntford. «Ma questo non basta a spiegare l'interesse di Amundsen e Scott. Scott era imbottito di ideali eroici; Amundsen voleva semplicemente raggiungere il polo; Scott seguiva la tradizione romantica dell'eroismo come sofferenza, Amundsen veniva da una cultura che non vedeva alcun merito nell'esporsi a rischi non necessari» continua lo storico britannico. «Scott era un edoardiano, con la caratteristica mescolanza di aspirazioni eroiche e di nevrotica paura della decadenza, in un'età di grandi trasformazioni e con l'incombente minaccia della guerra. Amundsen, da parte sua, poteva essere uscito da un'antica epica. Era l'eroe omerico, un sopravvissuto, "l'uomo dal multiforme ingegno", nelle parole iniziali del'Odissea, "che di molti uomini vide le città e conobbe l'indole"». Il norvegese si era sistematicamente preparato fin dall'adolescenza, vide la spedizione polare come un incrocio dell'arte del marinaio e quella dello sciatore e seppe fare la scelta giusta: quella di mettere gli uomini sugli sci, e di far tirare le slitte dai cani, poiché il suo compatriota Fridtjorf Nansen aveva scoperto che la loro velocità era uguale (di Nansen sono stati da poco pubblicati da Excelsior 1881 i diari: "La spedizione della Fram", la stessa nave poi usata da Amundsen). Scott, secondo Huntford, era fedele al precetto che i gentlemen non si allenano, e certo non sapeva sciare. Il primo passò l'inverno antartico a sperimentare e adattare l'attrezzatura, il secondo organizzò nella base conferenze scientifiche e corsi di fotografia (la splendide immagini scattate dal fotografo della spedizione, Herbert Ponting, sono ora pubblicate da Nutrimenti in "Scott in Antartide", pagg.288, euro 29).

Scott era l'ultimo erede della lunga storia britannica delle esplorazioni polari, che risaliva all'età elisabettiana, Amundsen aveva alle spalle solo la prima traversata della Groenlandia compiuta da Nansen, e «non era vittima del sinistro potere del passato, che è uno dei temi centrali della tragedia greca e più vicino a noi, dei drammi di Henrik Ibsen» osserva lo storico inglese, Il primo condusse la sua spedizione come una nave da guerra, senza comunicare le proprie intenzioni, il secondo condivideva con i suoi uomini tutti i dettagli dei suoi piani, mirando a imbrigliare i talenti di ciascuno senza soffocare l'intraprendenza individuale. «Lascio che ciascuno si senta indipendente all'interno della propria sfera – dichiarò – così ognuno è trattato come un essere razionale, non come una macchina». Anche in questo, il norvegese collaborava con la natura, invece di contrastarla.

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