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Economia Lavoro

Fotografia dell'Italia dei giovani senza lavoro. Mappa interattiva

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 22:31.

La fotografia dell'Italia dei senza lavoro è un quadro a tavolozza fredda di numeri che, scarnificati, ci dicono come a luglio il tasso di disoccupazione sia all'8,4 per cento. A scaldarli, quei numeri, sovrapponendoli a volti e stati d'animo, significa che un po' più di due milioni di persone sono in cerca d'impiego: è come se metà del Veneto fosse fatto di città abitate da fantasmi senza uno scopo, senza speranza. Dove nulla si fa, dove non ci sono risorse né per sé, né per la collettività, dove non ci sono tasse e contributi, ma dove non ci sono pensioni, dove non c'è sanità, dove non c'è scuola. Una glaciazione.


Poiché il fenomeno è diffuso su scala nazionale, anche se colpisce con maggior forza il Sud, potrebbe rivelarsi comunque sopportabile per un paese che ha conosciuto tassi di disoccupazione a due cifre. Ma la crisi morde più che in passato, incide anche nei circuiti informali e sommersi di autosussistenza o di welfare familiare. Stavolta c'è meno reddito da distribuire, meno denari da destinare a consumo, che a volte significa anche solo sopravvivenza. Gran parte delle nuove assunzioni che figurano nelle statistiche (guarda la mappa interattiva, regione per regione) è frutto di regolarizzazione di immigrati e, così, questa Italia del lavoro ha anche il volto multicolore dei nuovi italiani che qui vengono dai cinque continenti.


Né è di consolazione il fatto che la fotografia italiana sia simile a quella francese o a quella svedese, o a quella spagnola. Il mal comune non è mai un mezzo gaudio per la vecchia Europa, impegnata a ripensare a fondo il suo modello di stato sociale e a farsi un esame di coscienza sugli errori nelle politiche di welfare dei decenni passati.
In Italia il 37,8% delle persone censite dalle statistiche ufficiali ormai è inattivo, vale a dire non cerca nemmeno un impiego. Le donne soprattutto: una su due lascia perdere quasi subito la ricerca di un'occupazione che non arriva mai. E a volte, quando arriva, non è compatibile con i compiti di cura familiare data l'esiguità delle politiche pubbliche di supporto alla famiglia.

Eppure il lavoro – per quanto su scala ancora ridotta ma non infinitesimale – ci sarebbe, ma non incontra chi lo sappia fare, sia nelle fasce basse, sia nelle fasce alte dell'impiego. Donne e giovani sono le cosiddette fasce deboli del lavoro che, di legge in legge, di garanzia in garanzia, di diritto in diritto, ha creato negli anni un mercato a doppia striscia: quanti sono risuciti a proteggersi nella fascia dei contratti a tempo indeterminato, gli altri che sono finiti nella fascia dei contratti a termine, dei cococo, degli apprendistati, dei contratti a chiamata, dei part time, del lavoro interinale o a somministrazione.

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È lo stesso scotto che pagano in Europa gli altri mercati del lavoro dualizzati, spaccati dalla frattura tra chi è nel club degli insider (i protetti) e il gruppo dei paria degli outsider (i senza diritti). Troppe protezioni inamovibili diventate altrettanti totem sindacali, protetti e venerati dalla politica "unionista", pigramente acquartierata sul mito dello Statuto dei lavoratori considerato, a suo tempo, superato dal suo stesso padre Gino Giugni.

Molte, moltissime forme di flessibilità scaricate addosso a un paio di generazioni su cui si sono abbattuti tutti i rischi e gli squilibri delle vecchie, dissennate politiche di welfare.

Se oggi ci sono 110mila lavoratori a chiamata, per lo più significa che quell'esercito di avventizi è stato strappato a un lavoro nero, senza diritti, senza contributi, sconosciuto al fisco. Se proliferano i rapporti di assunzione a tempo significa solo che le imprese hanno terrore a ingaggiare personale a tempo indeterminato. Questo mercato del lavoro a due colori porta tutti gli svantaggi di una politica ingessata nell'ipergarantismo senza contrappesi e tutti gli svantaggi di una politica non oculata sulla precarietà della iperflessibilità.

Ci sono state circa 200 leggi in Europa nei 25 anni che hanno preceduto la grande recessione da cui oggi siamo ancora segnati; quasi tutte intervenute per aumentare le flessibilità del sistema. Nessuna legge ha mai modificato gli assetti normativi del lavoro protetto dai contratti a tempo indeterminato. Risultato: è aumentata la volatilità del lavoro europeo e, con essa, le incertezze sul futuro delle persone, l'impossibilità di pianificare la traiettoria economica delle nuove famiglie.

Il mercato del lavoro è una vasca in cui l'acqua che entra non esce alla stessa velocità perché c'è un tappo sproporzionato. Lo ha rinforzato il giuslavorismo esasperato, un connubio culturale tra sindacato e politiche filo-laburiste di sinistra e di destra, che ha impedito nel corso degli anni di regolare, con pacatezza e razionalità, il tema della flessibilità in uscita, tema che porta anche all'argomento tabù del licenziamento.

Nessuno si illude che siano maturi i tempi per risolvere il tema: si è già visto quale sia la temperatura su questi argomenti con il piccolo caso di Melfi. Le scorie e le tossine dell'ideologia non aiutano l'evoluzione della discussione: ci sono proposte di legge di varia estrazione che trattano la riforma del tema in un disegno ampio di regolazione dei rapporti di lavoro, ma restano lettera morta nei cassetti di qualche commissione.

Non è mai il tempo, non è mai il modo. Ma il mercato continua ad allargare le sue strisce. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Qualcosa di sempre più simile a un apartheid.

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