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Economia Lavoro

La Fiom divide gli eredi di Seattle. Una parte dei no global aderisce al corteo, un'altra lo contesta

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2010 alle ore 09:49.

I gruppi e i movimenti che oggi si divideranno tra chi contesta e chi invece aderisce alla manifestazione della Fiom sono figli del defunto movimento no-global, nato a Seattle nel 1999 e spinto in ogni città e università del mondo grazie proprio alla velocità di quella rivoluzione tanto contestata allora. Il sogno no-global, un po' Manu Chao e un po' Naomi Klein – che metteva insieme insegnanti e ragazzi dei centri sociali, papa boys e drag queen, migranti e avvocati – venne spezzato dalla violenza dei black bloc contrapposti alla polizia a Genova, nel 2001.

Oggi una parte importante degli eredi, che si riunisce sotto l'etichetta «Uniti contro la crisi» e comprende l'area degli ex-disobbedienti e i gruppi per i diritti dei cittadini, prova a ripartire da quell'esperienza: «Il Social forum non rinascerà mai – spiega Anubi Lussurgiu D'Avossa, attivista che guidò la Pantera e oggi, papà di due bambini, insiste con la politica – ma l'adesione alla rete di realtà molto diverse tra loro nasce dalla volontà di riprendere lo spirito che portò il movimento a Genova».

Quello che rende possibile l'unione delle ex-tute bianche di Luca Casarini con le associazioni dei consumatori è la consapevolezza che la crisi della sinistra classica non ha rafforzato i movimenti, ma li ha spaccati. «La fine dei partiti ha travolto anche noi che li contestavamo», sottolinea Anubi, attento osservatore delle evoluzioni del movimento. «Uniti contro la crisi» ha scelto come interlocutore sindacale la Fiom e come politico di riferimento Nichi Vendola. L'obiettivo è, secondo D'Avossa, «ricostruire la sinistra in Italia e superare la crisi economica».

Il nemico numero uno è Sergio Marchionne, o meglio, come direbbe un uomo che sognando sui movimenti ha passato la vita, Fausto Bertinotti, il «marchionnismo», la «dittatura del mercato» che si sta imponendo sulla democrazia. Le battaglie vanno dal diritto allo studio a quello per la pensione, dall'ambientalismo ai fondi fondi per la ricerca: «Appoggiano la Fiom perché è il sindacato che sta portando avanti una lotta estrema contro il mondo dell'impresa, come ognuno di loro, nei diversi settori, cerca di fare», continua D'Avossa.

Nella mappa dell'antagonismo italiano, a fare loro compagnia ci sono gli storici centri sociali italiani che, ai tempi dell'iPad e delle agenzie interinali, profumano ormai di "tradizione". Al punto che Alex Foti, mente della MayDay Parade (la manifestazione itinerante dei precari che si tiene in contemporanea al 1° maggio dei lavoratori), li definisce «un patrimonio di capitale umano: luogo di trasferimento delle passioni antifasciste, antiproibizioniste e antirazziste». Realtà che, come Officina 99 con i disoccupati a Napoli o l'ex Carcere di Palermo con le iniziative contro la mafia, fanno un lavoro legato al territorio in cui operano, spesso aprendo le porte a politici e sindacalisti. Centri nati per la contestazione e che oggi offrono servizi e intrattenimento a basso costo (dal Forte Prenestino di Roma al Cantiere di Milano).

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Accanto a essi, è cresciuta la rete dei movimenti sociali più vicini ai linguaggi della contemporaneità. «Le nostre campagne – spiega Rafael Di Maio, attivista del centro sociale romano Acrobax – fanno spesso uso della comunicazione per proporre un nuovo concetto di welfare, basato sul reddito garantito e sulla libertà della Rete». Sono militanti nati dagli sbagli di Indymedia e dalla certezza che la casa sia un diritto imprescindibile e che, come ricorda Foti che oggi è editor del settimanale MilanoX, sono proiettati in una fase post-global, caratterizzata dalla presenza di «reti noborder, Precarious United che lavorano su scala europea, difensori della "bicicrazia", degli orti e delle energie rinnovabili».

A chiudere il quadro, c'è quella che viene identificata come la "dark side" della contestazione: la costellazione anarchica che si muove dagli squat torinesi ai gruppi che su Facebook inneggiano ai principi libertari e ad azioni sovversive. Individualità spesso solitarie, punkabbestia, ravers, anarchici che non hanno mai letto Bakunin ma, più vicini agli squatter di Berlino che ai lavoratori di Pomigliano, credono che alla crisi violenta si debba rispondere con la violenza degli atti. «Sono presenti in tutte le aree del movimento – spiega Rafael – ma sono poco identificabili». Sono loro i "fantasmi" che spaventano di più la questura e l'opinione pubblica. E che spesso, distruggendo a ritmo di musica, minano i progetti di chi contestando costruisce. I mediattivisti, i precari, i migranti e i ravers che oggi hanno voglia di parlare sono quelli che non accettano di essere inglobati nel «pericolo» denunciato dal ministero degli interni. Gli altri, quelli che inquietano, preferiscono tacere.

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