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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2010 alle ore 16:00.
Ha preso il via in aula alla Camera la discussione generale sul collegato lavoro. Il testo, di 50 articoli, arriverà al voto definitivo mercoledì, salvo sorprese da parte dell'aula. Il ddl è stato rinviato alle camere dal capo dello stato il 31 marzo ed è giunto alla settima lettura.
Il Ddl collegato lavoro, che dovrebbe essere approvato dopo due anni di iter tra Camera, Senato e Commissioni parlamentari, potrebbe avere tra le conseguenze pratiche quella di "rispolverare" uno strumento molto utilizzato negli anni '90 per risolvere le controversie giuslavoristiche tra dirigenti e aziende: l'arbitrato (leggi qui tutte le novità). «È un tipo di giustizia che si affianca e non sostituisce quella ordinaria», spiega Luca Failla, fondatore dello studio legale specializzato LabLaw, che ha agito spesso come consulente di manager e aziende in sede arbitrale.
«La normativa, che deve essere consensuale, lascia ampi spazi di manovra alle parti ma l'arbitrato è un tema di discussione delicato in Italia. Tradizionalmente la giustizia ordinaria in materia lavoristica è considerata un cardine dell'ordinamento e l'arbitrato si propone come modello alternativo». Per questo motivo rispetto al primo testo di legge proposto per l'arbitrato previsto dal Disegno di legge è una versione, per così dire, ammorbidita.
«Il testo finale prevede sempre la possibilità per il lavoratore di scegliere tra le due alternative», spiega Failla. «Sono pochi i casi in cui il lavoratore è obbligato ad arbitrare, mentre in passato bastava che nella lettera di assunzione o nel contratto fosse inserita la clausola arbitrale». Queste accortezze sono una conseguenza dell'esperienza passata. Fino a circa dieci anni fa, lo strumento dell'arbitrato previsto nei contratti collettivi di lavoro era spesso utilizzato dai dirigenti aziendali.
«In caso di licenziamento arbitrare era quasi la regola», continua Failla. «In 15 giorni il professionista era convocato e in 30 il lodo era già pronto». Nel corso del tempo sono state le aziende a fare un passo indietro, iniziando a non aderire alle richieste di arbitrato. «Perché pagare il risarcimento dopo un mese dal licenziamento quando con la giustizia ordinaria non se ne parla prima di un anno e mezzo?», commenta l'avvocato su questa evoluzione.