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Economia Politica economica

Intervista a Mario Draghi: l'euro non si tocca ma l'acquisto di bond può minare l'autonomia della Bce

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2010 alle ore 11:30.

Di seguito pubblichiamo la traduzione integrale della video-intervista a Mario Draghi pubblicata sul Financial Times online

FT: Dominique Strauss-Khan ha criticato la frammentarietà con cui l'Eurozona ha reagito alla crisi del debito pubblico. Condivide il suo punto di vista?

Dev'essere chiara una cosa: non è in discussione l'euro. L'euro è uno dei pilastri dell'integrazione economica europea, e tutti i Paesi, dal primo all'ultimo, ne hanno ricavato grandi benefici. L'Europa sta muovendosi nell'ottica di creare le regole e le istituzioni per affrontare le crisi future in modo sistematico e onnicomprensivo. Presto disporremo di una nuova struttura di supervisione finanziaria, un nuovo Comitato europeo di vigilanza sui rischi sistemici, e alla fine avremo nuove procedure e meccanismi per la soluzione delle crisi.
Se guardiamo all'area dell'euro nel suo complesso, la prima cosa evidente, come ha detto una settimana fa il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, è che la situazione generale dei conti pubblici è più solida che in altre parti del mondo. La seconda cosa evidente è che i mercati dei titoli di Stato complessivamente funzionano bene.
Stiamo parlando di problemi all'interno di singoli Paesi, non di problemi dell'Eurozona nel suo insieme.I Governi a mio parere non vogliono semplicemente un'Eurozona in grado di sopravvivere, ma un'Eurozona che continui a essere un'area di prosperità. Le autorità hanno scelto di concentrarsi sulle regole e sull'elaborazione di nuovi meccanismi.
Mi torna in mente il 1991-1992. A quell'epoca ero appena stato nominato direttore generale del ministero del Tesoro italiano e guidavo la delegazione italiana ai negoziati per il trattato di Maastricht. Tutto filò senza problemi fino all'inizio estate del 1992, dopo la firma del trattato, quando il referendum danese mise in discussione l'intero processo di convergenza verso l'euro.
D'improvviso i tassi di interesse si misero a salire e gli spread sui titoli di Stato emessi dai vari Stati membri cominciarono a divaricarsi enormemente. Durante la crisi del 1992, l'Italia aveva un rapporto deficit/Pil intorno all'11 per cento e un'inflazione che superava il 5 per cento, il tutto unito a una forte instabilità politica. Era una situazione sicuramente peggiore di quella che si può immaginare oggi nei Paesi colpiti dalla crisi.

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Quando vedo queste cifre sulle necessità finanziarie [correnti] dei vari Paesi, mi ricordo che in Italia [nel 1992] emettevamo ogni mese titoli nuovi, o per rifinanziare il debito esistente, per qualcosa come 60 miliardi di dollari. Non andammo a chiedere aiuto al Fmi e non ci fu nessun intervento di salvataggio da parte dell'Ue. Nei mesi successivi l'Italia mise in campo un piano di risanamento dei conti pubblici credibile, e in questo modo riuscimmo a superare la crisi. Negli anni successivi, realizzammo una serie di privatizzazioni per un ammontare pari al 10 per cento del Pil, probabilmente il programma di privatizzazioni più vasto mai realizzato in Europa.
Ma non dimentichiamoci che nel 1995 lo spread rispetto ai titoli di Stato decennali tedeschi era salito fino a un record di 600 punti base. E solo nel 1996-1999 siamo riusciti a raggiungere un surplus primario di circa il 5-6 per cento del Pil, e a soddisfare i criteri di Maastricht. In conclusione, è un'impresa lunga e complicata, ma fattibile. La risposta a una crisi dev'essere innanzitutto nazionale, con un intervento credibile sui conti pubblici e riforme strutturali in grado di rilanciare la crescita.

L'altro punto che vorrei sottolineare è l'importanza di un approccio basato sulle regole. Prendiamo il caso di due Paesi diversi: da una parte c'è il Giappone, con un rapporto debito/Pil eccezionalmente alto, ma nessuna tensione o problema finanziario, per quanto ne sappiamo; e dall'altra parte ci sono Paesi come l'Argentina, che è andata in default in un momento in cui il rapporto tra debito e Pil, a quanto mi sembra, era inferiore al 50 per cento. Questo confronto dimostra che non conta solo la forza dell'economia reale, contano anche le istituzioni. Le regole, per Paesi con istituzioni deboli, possono essere considerate un modo di prendere in prestito forza da Paesi con istituzioni forti. Per questo per i Paesi più deboli è meglio se ci sono regole solide e forti.


FT:Qual è il ruolo della Bce in questa fase?
Qualche anno fa, poco prima che cominciasse la crisi, i vari Stati membri dell'euro avevano degli spread molto ridotti sui rispettivi titoli di Stato, nonostante portassero avanti politiche nazionali molto diverse sul fronte finanziario e della spesa pubblica.
La crisi ha prodotto due cose. In primo luogo ha mostrato che la componente strutturale di quelle divergenze giocava in effetti un ruolo molto rilevante, e accentuava le divergenze stesse. In secondo luogo ha fatto crescere enormemente, e in un certo senso giustamente, l'avversione al rischio da parte di tutti gli operatori di mercato.
Queste due cose naturalmente hanno prodotto e stanno producendo un «riprezzamento» dei titoli di Stato all'interno dell'unione monetaria. Io lo ritengo un processo naturale e concordo con Otmar Issing [ex componente del comitato direttivo della Bce] e altri quando affermano che gli spread fondamentalmente dovrebbero rispecchiare le diverse situazioni contabili dei diversi Stati, guardando alla sostenibilità complessiva dei conti pubblici con lungimiranza.
Sappiamo fin troppo bene, da quando è iniziata la crisi, che questi processi di «riprezzamento» non avvengono in modo armonioso e ordinato. Spesso c'è un incremento sproporzionato, un overshooting, mentre succedeva l'inverso prima della crisi. Queste oscillazioni eccessive possono causare danni permanenti se non vengono contrastate. Ad esempio, i Cds di certi Paesi europei al momento sono superiori a quelli di Paesi in via di sviluppo che si trovano in situazioni disastrose. Ci sono chiaramente casi di overshooting.
Faccio un altro esempio a questo proposito. I titoli di Stato a scadenza biennale o inferiore sono usati comunemente dalle banche quasi come un sostituto del denaro liquido. Se in questo campo cresce significativamente la volatilità, le banche si precipiteranno a cercare una liquidità di altro genere, e questo potrebbe destabilizzare il mercato del credito. La Bce è giustamente preoccupata per questa volatilità, perché colpisce le cinghie di trasmissione della politica monetaria. Il «riprezzamento» dei titoli di Stato penalizza anche il valore del collaterale che le banche possono offrire quando si rifinanziano con la Bce (e in questo modo viene colpito un'altra cinghia di trasmissione).
I titoli di Stato sono importanti anche perché coprono tutta la curva dei rendimenti dei titoli obbligazionari, e dunque trasmettono input dal segmento a breve termine a quello a lungo termine, funzionando come un'ulteriore cinghia di trasmissione della politica monetaria.
Quando la Bce opera su questi mercati, quindi, non fa finanziamento monetario, fa politica monetaria. Per quanto detto sopra, quello che fa la Bce è temporaneo e strettamente legato alla disfunzionalità di certi mercati: di fatto la Bce sta sterilizzando qualunque incremento temporaneo della liquidità.


FT:Quindi, per essere chiari, la Bce non dovrebbe acquistare titoli di Stato su larga scala, perché una cosa del genere sarebbe contraria al trattato e metterebbe a rischio la sua indipendenza?
Bisogna fare molta attenzione a fissare le condizioni per effettuare questi acquisti, perché sono perfettamente consapevole che esiste il rischio concreto di passare il segno e perdere tutto quello che abbiamo, perdere l'indipendenza e sostanzialmente violare il trattato.
L'obbiettivo è affrontare il problema della disfunzionalità delle cinghie di trasmissione della politica monetaria. Dev'essere un intervento temporaneo, collegato a questo malfunzionamento di determinati segmenti del mercato. E non dovrebbe essere fonte di liquidità addizionale.I massicci programmi di acquisto di titoli di Stato da parte di altre Banche centrali, citati come esempio da seguire per la Bce, non prendono di mira prevalentemente la disfunzionalità dei mercati, sono pensati per incrementare la liquidità del sistema: queste Banche centrali però non hanno lo stesso mandato che ha la Bce. Hanno, ad esempio, il mandato di favorire la crescita. Il nostro mandato è di mantenere la stabilità dei prezzi.


FT:Ha parlato di misure da parte della Bce contro le banche «drogate» dalla sua liquidità. Che cosa intende?
Con un sistema di aste a tasso variabile per la liquidità della Bce, una banca «drogata» sarebbe pronta a pagare un tasso di interesse più alto di altre banche, perché ha un bisogno disperato di quella liquidità. Prima o poi la Bce dovrà tornare alle aste a tasso variabile. E per allora vogliamo essere assolutamente certi che la nostra politica monetaria non sia inquinata dalle richieste delle banche drogate. In altre parole, i tassi di interesse possono salire, ma non perché una banca ha un disperato bisogno di liquidità. Per questo ritengo che affrontare il problema delle banche drogate sia un elemento essenziale per qualunque exit strategy.


FT:Ha delle proposte concrete a questo proposito?
Certo. Ma non intendo parlarne in questa sede perché è una questione che ricade sotto la responsabilità del comitato direttivo della Bce.


FT:Una tra le idee più recenti per risolvere la crisi è quella di creare degli E-bonds comuni a tutta l'Ue; sono stati proposti anche dal ministro Tremonti. Ha qualcosa da dire riguardo a questa proposta?
In un certo senso, credo di aver già risposto a questa domanda quando ho parlato di regole e meccanismi di bilancio. L'esperienza personale mi ha dimostrato che un Paese può riuscire a uscire da una crisi senza nessun aiuto dall'esterno. Si possono utilizzare dei meccanismi per affrontare problemi temporanei come – in un altro contesto – il malfunzionamento di determinati segmenti del mercato. È difficile pensare che un meccanismo possa correggere disallineamenti strutturali di fondo, che devono essere affrontati a livello nazionale.
Riguardo allo strumento specifico da lei citato, ritengo che bisognerebbe valutare con attenzione costi e benefici. Sicuramente non va considerato come un surrogato per il risanamento dei conti pubblici (ma non credo fosse questo l'intento degli autori della proposta). Per introdurlo sarebbero necessarie modifiche importanti sul piano legale e istituzionale. È una proposta interessante, ma al momento non esiste un'unione delle finanze pubbliche, e per adottare una proposta del genere sarebbe necessario un consenso ampio e forte. Al di là di queste difficoltà, l'affermazione di un impegno europeo resta la risposta più importante alla crisi.


FT:Ma la necessità di una maggiore integrazione dei bilanci degli Stati non è una delle lezioni che bisogna trarre da questa crisi?
Un processo così complesso [l'integrazione economica europea] passa attraverso diverse fasi. Si comincia con un gruppo di Paesi che decidono di avere un'unica moneta, e che pensano che tutto il resto possa rimanere così com'è. Poi scoprono che non può rimanere così com'è, e allora stabiliscono delle regole e cercano di vincolarsi a un comportamento uniforme attraverso di esse. Poi, se scoprono che le regole non bastano, devono trovare un modo per rafforzare il coordinamento politico, e magari introdurre nuove regole per vincolarsi ancora di più. L'Europa sta facendo progressi in questa direzione, ma resta da vedere fino a dove si spingerà questo processo. Gli Stati saranno disposti a rinunciare alla sovranità nazionale sui loro bilanci? Gli Stati saranno pronti a interessarsi dei problemi di altri Stati, e tassare i loro cittadini per risolvere tali problemi?


FT:In questo momento la Spagna è considerata in prima linea. Se cadrà la Spagna, dopo toccherà all'Italia?
Prima di parlare della situazione odierna dell'Italia voglio aggiungere qualcos'altro sul periodo dei primi anni 90. All'epoca, la gente diceva dell'Italia le stesse identiche cose che si sentono dire oggi della Grecia e del Portogallo. Qualcuno obietterà che all'epoca il cambio era flessibile, e quindi che potevamo svalutare. È vero, ma solo in parte, perché la svalutazione del tasso di cambio nominale è effimera. In quell'occasione l'Italia recuperò competitività principalmente grazie a una serie di riforme strutturali nei meccanismi salariali. La flessibilità del cambio ha anche l'effetto di far salire significativamente lo spread, perché si deve dar conto dell'incertezza sul cambio.
Ma torniamo alla situazione attuale. Io sono del parere che l'Italia possieda dei punti di forza che altri Paesi non hanno. La struttura finanziaria è solida. L'indebitamento delle famiglie è forse al livello più basso di tutta l'Ue.
Inoltre, le banche italiane sono uscite dalla crisi illese, o sono state colpite solo in modo marginale, per una serie di ragioni. In sostanza, hanno una struttura di finanziamento eccellente, molto solida. La qualità degli asset è buona. Il modello di business è piuttosto tradizionale e di conseguenza le attività finanziarie non hanno una rilevanza sproporzionata rispetto all'attività tradizionale di prestito.
I punti deboli dell'Italia sono la fiacchezza della crescita e il debito. Dobbiamo portare a termine una serie di riforme strutturali. La crescita, insieme al rigore di bilancio, è il pilastro della stabilità finanziaria. L'una è complemento dell'altra. Per rilanciare la crescita servono riforme strutturali che incrementino la concorrenza nel settore dei servizi, accrescano l'efficienza della pubblica amministrazione e migliorino il livello dell'istruzione. Bisogna combattere l'evasione fiscale e ridurre le tasse, e bisogna migliorare la situazione della giustizia civile.


FT:Lei considera la Germania un modello?
Penso che la ristrutturazione recentemente operata dalla Germania e la sua reazione alla crisi siano un modello, per una serie di ragioni. Per cominciare, il settore manifatturiero tedesco ha saputo ristrutturarsi, incrementando la produttività della manodopera e la produttività complessiva dei fattori in modo straordinario. Ma il Governo ha realizzato anche una serie di riforme strutturali, concordate con le parti sociali. Tutto questo naturalmente ha messo la Germania nelle condizioni di reagire meglio di altri Paesi europei al calo della produzione provocato dalla crisi.


FT:E la clausola antidebito introdotta dai tedeschi nella loro Costituzione?
Le regole sono molto importanti, specialmente, come ho già detto, per i Paesi deboli, quindi sono senz'altro favorevole a regole di questo genere.


FT:Uno dei problemi legati, ad esempio, al salvataggio della Grecia, è che ha ridotto al minimo le possibilità di crescita, perché costringe a uno sforzo eccessivo un Paese schiacciato sotto il peso di un debito pubblico colossale, e che aumenta sempre di più. È d'accordo?
In tutte queste crisi, la situazione finanziaria inizialmente appare molto difficile da gestire. Tutti concentrano la loro attenzione sulle scadenze, sugli spread, sui tassi di interesse e tutto il resto. Io sono del parere che i fatti dimostrano che se si concede a un Paese tempo a sufficienza, e questo Paese mostra fermezza e serietà nella risposta nazionale alla crisi, tutto va a finire per il meglio. L'idea che si possa risolvere in quattro e quattr'otto una crisi finanziaria e tornare a crescere nel giro di due anni secondo me è un'assurdità.


FT:È come una guerra, una guerra lunga?
Sì, è una guerra lunga. Peraltro, non è che i mercati finanziari siano necessariamente ostili. Se la comunicazione è efficace, se l'azione politica è solida e se l'impegno è percepito come persistente, i mercati sicuramente lo accoglieranno in modo positivo.

FT:Dunque secondo lei sbagliava chi proponeva di ristrutturare il debito greco nel momento più grave della crisi, tra marzo e maggio?
Pensa che dichiarando il default la Grecia avrebbe potuto fare a meno di procedere alle riforme finanziarie e strutturali? La risposta è no. Avrebbe dovuto farle comunque, ed è meglio poterle fare senza un default, perché in questo modo non ci si preclude l'accesso ai mercati dei capitali e si mantiene la solidarietà con gli altri membri dell'unione monetaria.

FT:Resta comunque necessario un cambiamento culturale del settore bancario?
In tutto questo ci si è quasi dimenticati che esistono banche al dettaglio solide, tradizionali, ben gestite. In quegli ambiti dove si sono verificate le distorsioni più gravi (dove il trading si è mescolato all'investment banking estendendo e sparpagliando il credito) c'è senz'altro bisogno di un cambiamento culturale.

Questo cambiamento sta già avvenendo, ma deve proseguire. C'è stato un grave disallineamento degli incentivi nel processo di cartolarizzazione. Società con scarsa esperienza dei comportamenti dei mercati del credito nell'arco del ciclo economico hanno erogato attraverso questi prodotti grandi quantità di credito e trasformazioni delle scadenze. È difficile fare queste due cose e ricavarne un profitto. Ci sono rischi elevatissimi e persistenti, che ci si porta dietro per parecchio tempo. E contemporaneamente, le persone responsabili di questi errori si autoretribuivano in modo eccessivamente munifico, perché incassavano i profitti immediati di una transazione, mentre i rischi perduravano molto più a lungo. C'è anche un'altra cosa da dire a questo proposito: bisogna affinare i metodi di calcolo del rischio. Nel complesso direi che si sono fatti molti passi avanti, ma ho la sensazione che resti ancora molto da fare.

Traduzione di Fabio Galimberti
© THE FINANCIAL TIMES LIMITED 2010

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