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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2010 alle ore 14:02.
L'ultima modifica è del 18 maggio 2010 alle ore 10:08.

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Già la crescita, il lungo periodo. Un target non così facile da realizzare e su cui le opinioni divergono. Anche perché, se da un lato le manovre correttive di questi giorni annunciate da Portogallo e Spagna (e anche dall'Italia) potrebbero riportare la contabilità in linea con le direttive di Maastricht, dall'altro una politica fiscale restrittiva può strozzare nella culla la già debole ripresa.

Al di là dei temi macro-fondamentali, sul fronte della crescita si dibatte anche la questione delle regole. Tra i passaggi chiave della riforma del patto di stabilità, presentata di recente, si può ricordare la richiesta che le manovre correttive, dal 2011, vengano sottoposte al vaglio del Consiglio europeo: una sorta di controllo preventivo al livello comunitario, che ha già suscitato molte polemiche. «È un passaggio coraggioso che io appoggio - afferma Carlo Altomonte, professore di Politica comunitaria all'università Bocconi di Milano -. Anzi dovrebbe essere rafforzato: va nella direzione di una maggiore integrazione politica economica di Eurolandia».

Maggiore coordinamento economico?
Eccola qui la "parolina" che fa andare di traverso la digestione a molti: più integrazione economica che, di fatto, vuol dire cedere un pezzo di sovranità nazionale, erodere il dominio della politica fiscale in mano ai governi dei vari paesi. Non a caso, seppur professandosi convinto europeista, Ciniero, usando una metafora «da farmacista» come dice lui stesso, precisa: «Negli ultimi giorni sono stati usati dei farmaci antibatterici. Adesso è il momento di passare agli antibiotici che, come tutti sanno, non hanno un'efficacia generalizzata, bensì sulle singole patologie». Che tradotto significa? «Non c'è bisogno di una maggiore integrazione economico-politica: bisogna, in realtà, trovare delle regole più stringenti per razionalizzare la spesa pubblica, indirizzarla al meglio e fare sì che i singoli paesi possano rispondere correttamente ai parametri europei e sostenere la ripresa. Noi non siamo gli Stati uniti d'Europa».

Le riforme strutturali
Seppur puntando anche lui sulla necessità di spingere la crescita, che è un mantra dei manager, il ceo di Vodafone Italia è maggiormente possibilista nell'idea di rafforzare l'integrazione. «Trovare più coordinamento della politica economia - dice Bertoluzzi - oltre a quella monetaria, è una strada da percorrere. Anche se non l'unica». In che senso? «Ci devono essere riforme del mercato del lavoro, maggiore flessibilità, un incremento della produttività. Che però, voglio essere chiaro, non vuol dire: liberi tutti. Non possiamo dare i via libera al dumping sociale messo in atto, per esempio, da paesi come la Cina».

Sul terreno delle riforme, Bertoluzzo trova quale compagno di strada Paolazzi: «Maggiore efficienza nella pubblica ammistrazione, aumento della produttività. Sono tutti elementi importanti, cui non si potrà prescindere nel futuro di Eurolandia. Anche se essenziale rimane lo scatto in avanti sul fronte, almeno, di una più forte coesione non solo di politica monetaria. Di crisi valutarie già ce ne sono state e altre ce ne saranno: l'importante è sciogliere i nodi venuti al pettine, e non solo tappare le falle nella chiglia della nave». «Il patto di Mastricht - ricorda Altomonte - è stato pensato essenzialmente sulla stabilità monetaria. Adesso si deve pensare anche in termini di crescita, di strategie economiche e fiscali condivise. Altrimenti, non si fanno passi in avanti eci troviamo al punto di partenza»

Le regole sono fondamentali
Senza dimenticare però le regole. «La banca centrale europea - spiega Altomonte - così come gli altri istituti centrali, hanno immesso un'enorme liquidità nel sistema. Questa liquidità non è gestitita in un mercato concorrenziale, bensì da banche che operano in regime oligopolista. Bisogna imporre delle regole per evitare che, anche grazie alle tecnologie presenti sui mercati finanziari che amplificano gli effetti delle scelte degli operatori, pochi grossi istituti riescano a mettere in difficoltà i paesi sovrani». È il "vecchio" refrain del too big to fail... che dovrebbe trasformarsi, in un mondo normale, in: not so big... let them fail... Già, in un mondo normale.

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