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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2010 alle ore 14:17.
NEW DELHI. Quanto è lontano il giorno in cui un computer ci riconoscerà guardandoci in faccia? In cui interagiremo con lui a gesti e parole, senza sfiorare né il monitor, né il mouse, né la tastiera? In cui una strisciata di un badge trasformerà all'istante il più anonimo degli uffici nel nostro ufficio? Quanto è lontano tutto questo? Cinque, dieci, quindici anni? No. Settemila chilometri. Quelli che separano l'Italia da Bangalore, la caotica metropoli nel sud dell'India dove tutte le principali imprese tecnologiche globali hanno aperto i laboratori in cui questo futuro si può già toccare con mano.
Tra il 2000 e il 2008 i centri di ricerca e sviluppo indiani sono passati da 191 a 780. Le ragioni sono, almeno in parte, note. Vanno dai costi più contenuti alla disponibilità di capitale umano; dalla diffusione dell'inglese ai vantaggi di un sistema legale meno capriccioso di altri nel tutelare la proprietà intellettuale. Ma secondo Anil Menon, il presidente per Globalisation & Smart Connected Communities di Cisco c'è dell'altro. «Se non sei rilevante in India nei prossimi cinque anni - spiega - non potrai esserlo per il resto del mondo nei 10-15 successivi. Perché è in paesi in crescita e con bisogni complessi come l'India che emergeranno i nuovi modelli di business. Restando a San Jose puoi fare molto. Ma è qui che devi vivere se vuoi capire le sfide che hai di fronte». Una convinzione che ha spinto la multinazionale californiana ad aprire a Bangalore il suo «secondo quartier generale globale» e non una semplice succursale. È qui che siede il numero due dell'azienda, il chief globalisation officer Wim Elfrink. Ed è qui che vengono portati avanti alcuni dei progetti di punta di Cisco, come quelli per rendere più intelligenti gli edifici in cui viviamo e lavoriamo.
Uno di quelli preferiti da Menon si chiama personal virtual office, ed è una specie di ufficio universale che non appena "legge" il badge di un dipendente carica automaticamente le impostazioni associate a quell'utente: dal suo interno telefonico alla sua agenda degli appuntamenti; dalle impostazioni dell'aria condizionata a quelle delle luci. Non mancano neppure le immagini dei suoi familiari che magicamente appaiono nei portafoto virtuali.
Colpi di teatro a parte, lo scopo non potrebbe essere più concreto: occupare meno spazio e consumare meno energia. «In una giornata tipo in una grande azienda - spiega Menon - almeno il 20-30% delle scrivanie sono vuote perché gli occupanti sono in viaggio o in riunione o da un cliente». Se ognuno potesse sedersi dove gli pare ci sarebbero risparmi sia sul fronte opex («quando il dipendente se ne va l'ufficio entra in modalità risparmio energia») che capex («per un campus come il nostro significherebbe avere bisogno di un edificio in meno»). Il tutto senza rinunciare a quell'elemento di socialità che viene sacrificato nel telelavoro.