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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2011 alle ore 07:37.

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Il piatto dei derivati non è mai stato così ricco. A fine 2010, le cinque banche Usa più attive nel trading di questi prodotti dell'ingegneria finanziaria si sono divise ricavi per 19,3 miliardi di dollari, 3,1 in più rispetto al record precedente che risaliva all'ultimo anno della bonanza, quel 2006 quando la parola subprime non suonava ancora come un terribile campanello d'allarme. Questi istituti "valgono" il 96% del valore nozionale dei derivati Usa e l'86% dell'esposizione creditizia netta dell'intero settore a questi strumenti. I loro ricavi dipendono da una montagna di asset che, sebbene in lieve calo, vale oltre 231mila miliardi di dollari di nozionale. Ma anche da un mercato oligopolistico e scarsamente trasparente.

A spartirsi la torta sono stati, in realtà, sei istituti. Il primo player è sempre JP Morgan Chase, che a fine anno da solo aveva a bilancio derivati per un nozionale di quasi 78mila miliardi. Il secondo posto se lo sono giocati Citibank e Bank of America, salita in classifica dopo l'acquisizione di Merrill Lynch nel 2008. La quarta posizione è stabile appannaggio di Goldman Sachs, mentre la quinta, di trimestre in trimestre, è passata dalla filiale Usa del maggior gruppo bancario mondiale, Hsbc, e Wells Fargo. Ma il 2010 è stata un'ottima annata per l'intero sistema bancario a stelle e strisce, che ha sfiorato il record di ricavi del 2009 a 22,6 miliardi circa.

L'effetto a bilancio ha lavato il ricordo dei due terribili quarti trimestri del 2007 e 2008: nel pieno della bufera subprime e subito dopo il crack di Lehman Brothers, i derivati costarono perdite per quasi 19,2 miliardi. Tempi talmente bui da far temere che si avverasse il presagio lanciato nel 2003 da Warren Buffet, il guru di Omaha che definì i derivati «armi di distruzione di massa finanziaria». Oggi a Wall Street si torna a fischiettare "let the good times roll". Ma davvero, se i ricavi corrono, "son finiti i tempi cupi"?

A sentire le banche va tutto bene. Un top manager attivo nell'investment banking, che chiede l'anonimato, assicura che «oggi c'è grandissima attenzione alla gestione del rischio, specie in Europa. Dopo la crisi la parola d'ordine nelle banche è "nuova normalità": uno scenario di bassi tassi d'interesse con gli istituti che devono ricorrere a corposi aumenti di capitale per portare i patrimoni di vigilanza in linea con i requisiti di Basilea 3 (ne sono previsti per 150 miliardi in Europa). Gli asset non vanno messi a rischio. Un'ortodossia che vale anche nel Regno Unito, dove in passato i rendimenti sono stati ottenuti esponendo gli istituti a rischi inusitati».

Resta da dimostrare quanto durerà la "nuova normalità". L'alto dirigente ammette che «nel medio periodo si tornerà a chiedere che il capitale renda. Gli azionisti vorranno vedere il frutto degli aumenti di capitale». Un frutto chiamato dividendo. «In termini di return on tangible equity, i piani industriali italiani puntano a rendimenti del 15% al termine del prossimo triennio, in linea con quelli esteri. Non sono obiettivi facili da ottenere», conclude il nostro interlocutore. Valori lontani dal RoE al 16,7% raggiunto da UniCredit nel 2006, quando Deutsche Bank toccava un rendimento sul capitale del 20,4% e Bnp Paribas del 21,2. A distanze abissali dal 41,5% di Goldman Sachs nel quarto trimestre 2006, che portò la media 2004-2007 della banca Usa a un iperbolico 26,8.

Cos'hanno a che fare i rendimenti con i derivati? Semplice: per aumentare i ritorni, i banchieri possono aumentare le commissioni, cioé ei costi imputati ai clienti per i servizi, oppure chiedere rendimenti dagli investimenti. Ma la legge economica spiega che tanto più è alto il ritorno, tanto maggiore è il rischio collegato: ecco perché nei bilanci di molti istituti si concentrarono asset rischiosi che, dopo la crisi, sono stati definiti "tossici" e ora, più sommessamente, "illiquidi". Proprio per moltiplicare i rendimenti alcune banche arrivarono ad avere "effetti leva", cioé rapporti tra investimenti e capitale, a livelli impensabili: Ubs nel 2007 sfiorò una leva di 100, Deutsche Bank superò quota 50, Morgan Stanley più di 30. La leva europea passò da una media di 26 nel 1999 a 44 nel 2008, per tornare sotto quota 29 l'anno dopo.

Credere però che tutto vada per il meglio sarebbe come fidarsi dell'oste quando giura che il vino è buono. L'azione dei regulator si è fatta più stringente, si tornano a chiedere riforme e trasparenza. Ma il sistema è ancora in tensione: negli Usa l'impatto dei soli derivati, in termini di esposizione finanziaria dei bilanci, per le maggiori 25 banche commerciali nel 2010 veleggiava sopra il 140% il capitale "pesato" per il rischio (Rwa). Certo, il rischio-derivati pari a 6,3 volte il capitale di Goldman Sachs, guidata dall'aprile 2003 del ceo Lloyd C. Blankfein (uno dei rari capi azienda sopravvissuti alla crisi) è un record isolato e, comunque, in calo dalle 10 volte di fine 2008 e inizio 2009. Ma la media di sistema non è mai tornata ai valori precedenti al crack di Lehman Brothers: nel quarto trimestre del 2008 quel collasso fece impennare la media, già volatile, portando il rischio dei derivati a 2,2 la media del capitale delle prime 25 banche Usa e a 3,3 volte quello di cinque maggiori istituti.

Di certo alle cinque banche Usa non fanno bene notizie come quella sparata l'11 dicembre dal «New York Times»: il terzo mercoledì di ogni mese, nove top manager delle big five si riuniscono in segreto a Manhattan per discutere e decidere sul trading dei derivati. Uno scoop che la dice lunga su quanto siano limitate la concorrenza e la trasparenza su un mercato altamente profittevole e altrettanto rischioso.

nicola.borzi@ilsole24ore.com

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