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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2011 alle ore 07:45.

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«La nostra politica nazionale dovrebbe impedire, per quanto possibile, l'uso di questi mercati per operazioni puramente speculative». Nel febbraio del 1934 il presidente Franklin D. Roosevelt chiedeva così al Congresso di approvare il Commodity Exchange Act (Cea), la prima regolamentazione dei derivati, a quel tempo limitati ai futures, che sono impegni ad acquistare e vendere a data e prezzo prefissati, già allora da tempo ampiamente usati in agricoltura.


Era il terzo pilastro, dopo banche e Borsa, della costruzione finanziaria del New Deal che ha retto quasi 80 anni ed ha fornito a lungo un modello universale. Andava rinnovata. È stata nel corso dell'ultima generazione e soprattutto dal 1999 abbandonata. Il prezzo è enorme. E ora si cerca, o si dovrebbe cercare, di correre ai ripari.


I derivati, in parole semplici un contratto basato sui futuri movimenti di prezzo di un bene o indice al quale è collegato (i derivati più che derivare da un bene sottostante insistono sullo stesso), hanno assunto proporzioni inimmaginabili, oggi come tre anni fa a 600mila miliardi nozionali di dollari, dove il nozionale indica, a spanne, l'entità dei contratti partendo dal valore del sottostante. I beni reali sono limitati, ma i contratti che vi si possono stipulare sopra, in genere a copertura, sono pressoché infiniti. Su queste cifre, le commissioni di banche e finanziarie volano.


Gli Stati Uniti abbandonavano del tutto dieci anni fa le regole antiquate ma reali del Cea, buttato a mare il 20 dicembre del 2000. Con un blitz la lobby bancaria e finanziaria riusciva ad agganciare a una legge omnibus di 11 mila pagine le 262 pagine del Commodity Futures Modernization Act (Cfma), votate da entrambe le Camere quello stesso giorno, anche dal Senato dove erano state presentate poche ore prima. Con il Cfma i derivati non standardizzati e a trattativa privata, o over the counter, i più lucrativi, venivano del tutto esonerati dalle regole del vecchio Cea e non dovevano più uniformarsi a criteri di capitale, informazione, compensazione, norme per gli intermediari, eccessi di speculazione. Un mercato che valeva varie volte il Pil mondiale girava a ruota libera. I risultati non sono mancati.


I derivati stanno alla finanza moderna come gli antibiotici all'arte medica. Utilissimi, vitali. Nei casi e nelle dosi appropriati. Oggi, in attesa di nuove regole, vanno come nel 2008 a ruota libera, ad esempio sui mercati delle materie prime. A marzo Bart Chilton, uno dei responsabili della Cftc (Commodity futures trading commission), l'ente federale americano chiamato ora a regolare i derivati e a scrivere le relative norme nell'ambito della riforma finanziaria (la legge Dodd-Frank è una impalcatura ancora da riempire), ha fornito per il solo mercato petrolifero alcune cifre: «Fra il giugno 2006 e il gennaio 2011 gli hedge funds e altri speculatori hanno aumentato i loro contratti future-equivalenti sul mercato energetico da 617mila a un milione e 11mila». Non regolarli, ha detto recentemente testimoniando alla Camera di Washington il direttore della Gasoline and Automotive Service Dealers of America, «è il sistema più veloce per avere la benzina a sei dollari al gallone», cioè il 50% in più del già inconcepibile, per gli americani, prezzo attuale.


Dal mercato otc sono venuti, in definitiva, i guai del 2007-2008. Piattaforma e compensazione sono previste dalle regole che oggi si stanno scrivendo. Ma varie scappatoie, studiate ad arte, potrebbero lasciare in libera uscita in America almeno il 40% del mercato secondo Craig Pirrong dell'Università di Houston, un'autorità in materia. Mentre per Michael Greenberger, forse il maggior esperto americano di derivati, già alla Cftc, docente all'Università del Maryland e consulente del Congresso, addirittura il 70% potrebbe sfuggire. In attesa, oggi tutto è come prima, come nel 2008. E intanto i costi vengono pagati da cittadini e imprese, con la roulette sul petrolio che incide, con i derivati, per 20-30 dollari il barile, dicono le analisi più autorevoli (Kenneth Singleton di Stanford, e altre).


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