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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2011 alle ore 08:28.
Esattamente un anno fa uno dei più acuti studiosi di cose europee, Ivan Krastev, scriveva su American Interest di un'Europa malata e insoddisfatta, che è tale per almeno tre ragioni: la demografia, che ci ha reso mediamente più vecchi degli altri e quindi meno aperti ai rischi e alle opportunità del futuro; la capacità di fare meglio di noi dimostrata dai grandi Stati nazionali, che noi pensavamo di aver superato con un modello di governo sovrastatale, del quale dobbiamo invece constatare la maggior debolezza davanti alle sfide politiche ed economiche del mondo di oggi; la chiusura entro i confini dei nostri stessi Stati nazionali a cui tutto questo ci porta, con il che cadiamo, rispetto a quelle sfide, dalla padella nella brace.
Condivido questa analisi e ho anzi la sensazione che col passare dei mesi le cose siano andate di male in peggio. Abbiamo preso infatti a farci male da soli ed è per questo che l'Europa e la sua moneta rischiano oggi di affondare nelle pozze dei debiti pubblici interni. E sebbene sia ancora possibile raddrizzare la barra, il tempo per farlo è sempre più esiguo. I lettori sanno che io ho apprezzato i passi fatti in sede europea sotto la spinta della crisi finanziaria. Ho apprezzato che l'Unione si sia dotata di sue agenzie per il controllo dei rischi sistemici e la supervisione delle istituzioni finanziarie, così come ho apprezzato il Meccanismo di stabilità finanziaria a sostegno dei Paesi in deficit e il nuovo Patto di stabilità. È infine positivo che, nonostante la tendenza attuale ad avvalersi di accordi fra i governi più che delle procedure comunitarie, si sia fatto ricorso per tutto questo agli unici strumenti efficaci a disposizione, vale a dire i regolamenti comunitari, finendo così per rafforzare il tasso di integrazione comune.
Sono passi innegabili, ma altrettanto innegabili sono due cose. La prima è che si è proceduto fra tentennamenti e ritardi che hanno dato il tempo ai mercati di innalzare i tassi di interesse sui titoli dei Paesi più deboli a livelli tali, da mettere ormai a repentaglio la solvibilità di quegli stessi Paesi. La seconda è che per pagare debiti così inutilmente gonfiati si sono imposte a quei Paesi cure tanto draconiane da risultare o impossibili o distruttive e tali comunque da far pagare a loro sia le colpe che hanno, sia (soprattutto nel caso irlandese) quelle del sistema bancario, i cui debiti, privati, sono stati trasformati in debito pubblico.
Prescindo dalle valutazioni morali, che pure si potrebbero fare, e prescindo anche dal sentimento di profonda ingiustizia che tutto ciò genera ostacolando l'accettazione sociale delle misure di risanamento.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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