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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2011 alle ore 08:28.

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La vera domanda è se, prendendo atto di ciò che ormai è accaduto, è davvero inevitabile che le cose continuino così, con il rischio che i Paesi deboli cadano ad uno ad uno come birilli e trascinino nella loro voragine i crediti delle banche e i soldi che nel frattempo gli stessi governi, attraverso il Meccanismo di stabilità, ci avranno gettato dentro, con effetti sull'euro per ora imprevedibili.
È a questo proposito che abbiamo cominciato a farci del male da soli, perché in ciò che sta accadendo non c'è nulla di inevitabile e del resto le banche francesi (e poi tedesche) se ne sono accorte per prime e hanno convenuto con Atene un piano di rinnovo volontario, che è di fatto un allungamento delle scadenze per una parte consistente del debito greco. Ma questa non è nulla più che una classica terapia palliativa. È l'Unione europea, con le sue istituzioni e i suoi governi, che deve rendersi conto dell'assurdità di essere divenuta la malata finanziaria del mondo, alla mercé delle agenzie di rating e degli operatori che possono decidere al suo posto sul valore e la solidità della sua valuta a causa di situazioni debitorie, che, sommate e collocate nella cornice economica comune, non sono affatto spaventose.

È stato scritto e riscritto in questi giorni che la Grecia sta all'intera Europa come le Marche stanno all'Italia, che più o meno eguale è il peso del Portogallo, mentre in termini di disavanzo e di debito complessivi l'Europa sta molto meglio degli Stati Uniti. Perché allora è l'Europa la malata del mondo e perché bastano la Grecia e il Portogallo a farla tremare? Per la mancanza di coraggio politico dei governanti europei di maggior peso, i quali, schiavi della miopia di una parte (non più che una parte) dei loro elettori, non fanno ciò che servirebbe per mettere la forza dell'intera Unione, e non la debolezza dei singoli Stati, dietro i debiti pubblici più bistrattati dal mercato e per stimolare la crescita là dove quei debiti negano le risorse interne per farlo.

Siamo qui al nodo degli eurobond, che sono davvero europei solo se sorretti da una garanzia solidale degli Stati. Ma è la garanzia rifiutata in primis dalla Germania in nome del diritto dei suoi contribuenti di non rispondere dei debiti altrui, nello stesso momento nel quale essa ha invece accettato che i soldi dei contribuenti vadano agli aiuti che intanto si versano e si verseranno nel pozzo (reso) senza fondo di quegli stessi debiti. E qui la mancanza di coraggio si accoppia a una vistosa mancanza di coerenza. Certo si è che una massiccia conversione dei debiti nazionali in eurobond abbatterebbe gli interessi, restituirebbe solvibilità ai singoli Paesi (ai quali rimarrebbe comunque il compito di pagarli) e aprirebbe spazi per una crescita altrimenti impossibile. È una proposta che viene sostenuta da diverso tempo e che, al di là delle diverse formule tecniche in cui si traduce, è schiettamente bipartisan. L'hanno avanzata con la maggiore autorevolezza Jean-Claude Juncker, presidente lussemburghese dell'Eurogruppo, e il nostro ministro Giulio Tremonti. Ne hanno fatto la piattaforma di un possibile New Deal europeo personalità di diversi Paesi in una loro dichiarazione pubblicata dalla stampa internazionale lunedì scorso.

La condivide Mario Monti e la troviamo infine nel programma comune presentato il 21 giugno scorso dal Partito socialista francese e dalla Spd tedesca.
Che cosa ne possiamo conclusivamente desumere? Di sicuro resta vero che la diagnosi della malattia europea fatta da Ivan Krastev è fondata e che, pur fra alti e bassi, la malattia si è venuta aggravando. Ma siccome siamo stati noi stessi, noi europei, ad averla aggravata, un miglioramento è possibile e dipende soltanto da noi. Dovremo aspettare le prossime elezioni francesi e tedesche con il rischio di non arrivarci indenni? Non possiamo sperare che ci si muova prima? In gioco ci sono la dignità della funzione di governo e il rifiuto, una buona volta, di delegarla alle agenzie di rating e ai mercati. Sono cose che non dovrebbero avere colore politico, così come non lo ha lo scudo degli eurobond, che, nella situazione di oggi, di quella dignità e di quel rifiuto sarebbe la traduzione più concreta.

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