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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2012 alle ore 13:12.

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«Tutte le opzioni sono possibili ma il nostro impegno è evitare che succedano». Così il vice ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, risponde a margine dell'assemblea di Confindustria a una domanda sull'esistenza di piani di emergenza nazionali in caso di uscita della Grecia dall'euro.

Di euro si è parlato anche nel vertice di questa notte tra i capi di Stato Ue, che si è concluso con un nulla di fatto sulle decisioni di massima urgenza (Grecia, Spagna ed Eurobond) ci si interroga già se al prossimo giro (vertice Ue di fine giugno) i leader politici riusciranno ad approvare qualcosa di concreto dopo due anni consecutivi di incontri, promesse, scontri e poche mosse concrete attuate per arginare una crisi sempre più spietata, tanto dal punto di visto economico (è in atto per la prima volta nella storia dell'Ue una recessione sincronizzata) che finanziario (le Borse sono in rosso anche nel 2012 dopo i cali del 2010-2011, eccezion fatta per il listino di Francoforte).

Ci si interroga se l'euro manterrà l'attuale assetto a 17 Paesi. Oppure se qualcuno si defilerà o sarà defilato di forza. L'80% dei greci vuole restare nell'euro ma allo stesso tempo non essere soggiogato ai rigidi piani di austerity imposti dalla Troika (Ue-Fmi-Bce). In un contesto in cui la Germania non sembra voler mollare la linea dura. Lo ha dimostrato proprio nell'ultimo vertice quando ha ribadito il "nein" agli Eurobond, strumenti finanziari visti di buon occhio dalla Francia di Francois Hollande (e questa è la novità politica del momento), dalla Spagna di Mariano Rajoy e dall'Italia di Mario Monti. Se prendesse piede davvero questa Triplice Intesa (che si frapporrebbe alla Duplice Alleanza franco-tedesca Merkel-Sarkozy che difatti ha guidato le scelte politiche europee negli ultimi anni) è probabile che qualcosa possa davvero cambiare nella nuova, necessaria, visione d'Europa.

Ma intanto leggendo i dati che ogni giorno i mercati forniscono emerge una fotografia chiara (grafico rendimenti dei bond Eurozona dal 1993 ad oggi). In molti negli ultimi tempi indicano che un'eventuale uscita dall'euro dei Paesi periferici dell'area (quelli con il debito pubblico più alto e traballante, ovvero Spagna, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia) comporterebbe un'esplosione dei rendimenti dei bond, riportandoli ai livelli pre-euro.

Ne siamo così sicuri? Nel 1993 - come evidenziato in un'analisi di John Greenwood, chief economist di Invesco - i Bund a 10 anni pagavano il 6,5%, i rispettivi BTp il 10,8%, i Bonos il 9,9%, gli Oat francesi il 6,45%, i bond del Portogallo il 10,57% e i bond di Dublino il 7,3%. Livelli certamente superiori a quelli attuali dove impressiona il tasso della Germania che oggi invece paga sugli stessi titoli l'1,4% nominale (mentre a livello reale i rendimenti sono negativi in quella che difatti è una ristrutturazione gratuita del debito tedesco).

Se però ci spostiamo a fine 1997 (quindi sempre nella fascia temporale pre-euro) il quadro cambia profondamente. I Bund tedeschi pagavano il 5,5%, i BTp il 6,1%, i Bonos il 5,9%. Tra il 5,5% e il 6% anche i titoli di Francia, Portogallo e Irlanda.

In pratica i bond di Spagna e Italia viaggiavano nel 1997 sugli stessi livelli attuali. Mentre Portogallo e Irlanda (costretti recentemente a ricorrere al piano di aiuti/amministrazione coatta euroepi) oggi pagano più di quello che pagavano 15 anni fa.

Numeri che fanno riflettere perché indicano che la crisi dei debiti dell'Eurozona ha riportato i bond sui livelli pre-euro. Ovvero che l'euro, a questi livelli, non riesce più a far da scudo sui Paesi periferici che, anzi, in questo momento sembrano più intrappolati dalla forza della moneta unica che beneficiari. Si stava meglio quando si stava peggio?

www.twitter.com/vitolops

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