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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2012 alle ore 07:14.

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La Cina taglia il costo del denaro per tentare di tonificare un'economia zoppicante, che sta crescendo al ritmo più basso dalla fine degli anni Novanta. Ieri sera, subito dopo la chiusura dei mercati, la People's Bank of China ha annunciato una riduzione di 25 punti base dei tassi d'interesse ufficiali: quelli sui prestiti sono scesi al 6,31%, mentre quelli sui depositi sono stati limati al 3,25 per cento.

Non solo. La banca centrale cinese ha deciso anche di dare maggiore margine di movimento alle politiche creditizie delle banche, ampliando leggermente il corridoio di oscillazione dei tassi d'interesse attivi e passivi rispetto al saggio di sconto ufficiale: da domani, i singoli sportelli potranno offrire alla propria clientela una remunerazione sui depositi pari fino al 110% del tasso di riferimento, e un tasso sui prestiti pari fino all'80% del benchmark.
Benché destinata ad avere un impatto limitato sui volumi di credito, la maggiore flessibilità concessa dalla Pboc alle banche è un provvedimento molto importante perché pone le basi per la futura liberalizzazione del mercato del credito cinese auspicata da tempo come una delle riforme chiave per la modernizzazione del sistema finanziario cinese.

Il taglio del costo del denaro ha colto di sorpresa. Nonostante la debolezza dei dati macroeconomici di aprile, infatti, gli analisti escludevano che la banca centrale decidesse di passare così energicamente al contrattacco e prevedevano al più qualche altra riduzione della riserva obbligatoria per le banche (dal picco massimo del 21,5% dello scorso novembre fino a oggi è stata ritoccata di 50 punti base già tre volte).
E invece la Pboc ha fatto ciò che non faceva più dal lontano dicembre 2008 quando, per contrastare la crisi economico-finanziaria globale e sostenere la crescita, tagliò i tassi d'interesse per la quinta volta nel giro di soli tre mesi.

Oggi Pechino è sempre più preoccupata per il futuro dell'Eurozona. Ieri il capo del fondo sovrano, Lou Jiwei, in una rara intervista al Wall Street Journal, ha detto che «il rischio che la zona euro possa disintegrarsi sta aumentando». Lou ha aggiunto di aver diminuito già da tempo l'esposizione ai titoli di Stato dei Paesi periferici (senza specificare quali) e ha ridotto il portafoglio di azioni e obbligazioni europee. Ha inoltre mostrato poca fiducia in investimenti in futuri eurobond: l'Europa non è ancora pronta, ha affermato, perché non ha ancora creato una sufficiente disciplina fiscale.
Viste le preoccupazioni, l'allentamento di politica monetaria deciso ieri dalla banca centrale cinese potrebbe essere solo l'antipasto in attesa del varo di una manovra fiscale di sostegno alla crescita. Nelle ultime settimane, Wen Jiabao ha avvertito più volte il Governo sulla necessità di rilanciare la congiuntura. Secondo la stampa cinese, il pressing del premier avrebbe consentito di vincere le resistenze interne a una parte della nomenklatura (c'è chi teme che una politica fiscale espansiva possa riaccendere l'inflazione domata con grandi sacrifici solo lo scorso autunno) e di avviare la preparazione di un piano di stimolo alla crescita a base di grandi investimenti pubblici infrastrutturali.

Restano da chiarire, tuttavia, due aspetti fondamentali del pacchetto di misure fiscali che dovrebbe essere varato nel secondo semestre dell'anno: l'entità e le modalità di attuazione. Sul primo punto, gli analisti sono concordi nel ritenere che la manovra fiscale avrà una portata inferiore rispetto al super-piano da 4mila miliardi di yuan (all'epoca quasi 600 miliardi di dollari) varata nell'inverno 2008-2009 per contrastare sul piano domestico gli effetti della grande crisi internazionale. Gli economisti stimano che il piano salva crescita si aggirerà tra mille e 2mila miliardi di yuan: il suo ammontare sarà al massimo pari alla metà del pacchetto 2009.

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