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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2012 alle ore 06:42.

Scoppia sul caso Libor la guerra mondiale delle banche, che pare destinata ad allargare sempre più il numero dei contendenti, a durare molti anni e a gravare di un pesante interrogativo la redditività futura delle principali istituzioni finanziarie globali. A promuovere class action contro tutte le banche coinvolte nella fissazione manipolata del Libor non sono più solo i soliti studi legali americani in cerca pubblicità e denari, né amministrazioni locali statunitensi guidate da politici a caccia di consensi e nemmeno investitori-clienti ai quali si possa opporre l'argomento difensivo secondo cui – anche se i tassi sono stati fissati con modalità "improprie" – è difficile provare l'esistenza di accordi finalizzati a limitare la concorrenza: adesso scendono in campo altre banche, che sostengono di essere state danneggiate per aver incamerato minori proventi da interessi. È la Berkshire Bank di New York (nessun legame con la holding Berkshire Hathaway di Warren Buffet) ad aver aperto il fronte, già predisposto da una azione legale di un altro piccolo istituto, la Community Bank & Trust di Sheybogan (Wisconsin).

Sembrerebbe Davide contro Golia, visto che Berkshire, con soli 881 milioni di dollari in asset e 11 filiali, porta l'attacco a 15 colossi: i big di Wall Street BankAmerica, JPMorgan, Citigroup e quelli svizzeri (Ubs, Credit Suisse), britannici (Rbs, Lloyds, Barclays, Hsbc), giapponesi (Bank of Tokyo-Mitsubishi, Norinchukin), tedeschi (Deutsche Bank, WestLb) e altri (Rabobank, Royal Bank of Canada). Ma per i protagonisti della finanza mondiale la sfida è insidiosissima. Berkshire chiede al suo affondo presso la US District Court di Manhattan lo status di class action, ossia intende rappresentare tutti gli istituti dello stato di New York colpiti dalle manipolazioni dei tassi interbancari. Soprattutto, però, a questo punto è chiaro che altre banche saranno spinte dalle pressioni degli azionisti (o persino da minacce legali in caso di inerzia) a entrare in una guerra in cui anche grandi hedge fund, secondo le indiscrezioni, stanno valutando se mettere o no in campo il loro peso.

Si rischia, insomma, il tutti contro tutti per la manipolazione del benchmark utilizzato per dare il valore a 360mila miliardi di dollari in prodotti finanziari. Nel solo stato di New York, secondo Berkshire Bank «decine, se non centinaia di miliardi di dollari in prestiti sono originati o venduti ogni anno a tassi legati al Libor in dollari: le banche di New York non hanno potuto incamerare in piena misura il reddito da interessi che a loro spettava». Negli Usa, del resto, le piccole e le grandi banche sono già ai ferri corti sul tema del rinnovo del programma speciale di assicurazione federale sui depositi (Tag) introdotto nel 2008 per evitare un esodo di risparmi dagli istituti minori (è in scadenza a fine anno). In ambienti britannici, poi, si comincia a paventare un attacco alla City da parte di settori americani interessati a trarre un vantaggio pro-New York dall'attuale crisi di credibilità della piazza londinese.

Il Libor è solo uno dei fronti aperti sul tema della correttezza delle banche. Ieri il capo del più redditizio gruppo occidentale, Hsbc, si è profuso in "scuse» e si è dichiarato «profoundly sorry», estremamente dispiaciuto: nel presentare una semestrale con 12,7 miliardi di profitti lordi (+11%), il ceo Stuart Gulliver ha parlato di «imbarazzo» e «vergogna» e promesso che presso il suo istituto certi comportamenti non si verificheranno più. Si riferiva ai mancati controlli sul riciclaggio di denaro (specie tra Messico e Usa) e alle vendite irregolari di prodotti finanziari complessi in Gran Bretagna: vicende per cui ha dovuto accantonare in bilancio ben 2 miliardi di dollari. Per il momento, visto che il relativo conto è destinato a crescere, a parte la tegola Libor che sta cadendo anche su Hsbc.

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