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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2012 alle ore 08:20.

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Fare impresa in Italia richiede una gran dose di buona volontà. L'indagine dell'ufficio studi Mediobanca su 2032 società, le maggiori realtà industriali della Penisola, non solo conferma un quadro dove si fatica a risalire la china dalla crisi, ma evidenzia anche come lo scorso anno il "rendimento" dell'attività non sia stato in grado di compensare il costo del capitale impiegato. Infatti il Roi, il rendimento netto del capitale realizzato nel 2011 dall'insieme delle aziende considerate, è stato pari al 5,8%, insufficiente cioè a coprire il costo di mezzi propri e debito che è risultato pari al 7,2%. Di fatto, dedicandosi all'attività produttiva, lo scorso anno è come se si fosse distrutta ricchezza per 1,4 punti percentuali.

Salvo i patemi sulla sorte dell'euro, sarebbe stato più comodo e più remunerativo vivere di rendita: puntare sui BTp decennali avrebbe consentito di spuntare un rendimento superiore di 1,5 punti percentuali rispetto al "Roe netto" – il rendimento dei mezzi propri, decurtato di un'aliquota virtuale del 12,5% – delle aziende italiane che mediamente nel 2011 è stato pari al 2,8%.

Un risultato sconsolante al quale si sottrae solo il macro comparto del made in Italy - i settori dell'alimentare, del mobile e delle piastrelle, della meccanica e degli elettrodomestici, della moda-abbigliamento - che nel complesso vanta un Roe superiore di 6 punti percentuali al rendimento dei Buoni del Tesoro. Per dimensioni, se la cavano meglio le medie aziende (+1,4 punti di differenziale), mentre per le grandi è una vera debacle (-10,9 punti il differenziale di rendimento). Non a caso i grandi gruppi hanno ormai dislocato oltre la metà della produzione all'estero.

"Matematicamente" il risultato è frutto di un aumentato costo del debito – passato in un anno dal 5,6% al 6% – e dell'impennata dei rendimenti dei titoli pubblici (dal 3,4% al 4,9% sulla scadenza decennale). Ma la situazione è frutto di un contesto che ha visto, rispetto al 2007 (l'ultimo anno prima della crisi innescata dalla finanza), una caduta di produttività dell'ordine del 9,6%, non compensata dalla dinamica dei prezzi, cresciuti nel frattempo solo del 4,5%. Il valore del prodotto per addetto è così calato del 5,7% e, considerato che nel periodo il costo del lavoro (inteso come complesso degli oneri che gravano sulle aziende) è cresciuto del 7,8%, la perdita di competitività complessiva, dal 2007 al 2011, è stata di 12,5 punti.

Se l'impresa non produce ricchezza, il "sistema" si impoverisce. Rispetto al 2007 l'occupazione nelle 2mila e passa aziende considerate è diminuita del 4,9%: cancellati 68mila posti di lavoro, quanti gli abitanti di una città come Imola. A soffrire a questo riguardo più la manifattura (-5,5% gli addetti) del terziario (-3,1%) e, a sorpresa, più il pubblico (-8,6%) del privato (-4,1%). Se l'impresa non produce ricchezza anche gli investimenti frenano: -5,3% sul 2010, -20,2% sul 2007.

Il problema è il mercato domestico, perchè se le 2023 imprese italiane censite da Mediobanca possono vantare comunque nel 2011 un ampliamento del giro d'affari del 9,2% rispetto all'anno prima, il merito è dell'export che è cresciuto del 18,3%, a un passo più che triplo rispetto all'incremento dei ricavi di casa, salito lo scorso anno del 5,5%. Rispetto al 2008, anno di punta, il fatturato domestico è ancora sotto del 4,6%, l'export è sopra del 7,6%. E comunque, l'espansione del giro d'affari non è servita ad alzare i guadagni. Il margine operativo netto è anzi calato del 4,5% nel 2011, restando al di sotto del 25,6% rispetto ai livelli che aveva raggiunto al top del 2007. E l'incidenza del risultato corrente sul fatturato, 5,8% in media, è sprofondata al minimo del decennio. Giù lo scorso anno anche gli utili netti: -65% a causa anche di pesanti oneri straordinari.

La crisi ha pesato anche sulla struttura finanziaria delle aziende che si è indebolita: il rapporto tra debito e patrimonio netto è peggiorato da 1,7 a 1,8 volte. A dispetto del luogo comune, nel 2011 a finanziare la gran parte dell'incremento del debito – 4,6 miliardi su 5,8 miliardi - sono state, nonostante tutto, di nuovo le banche.

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