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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2012 alle ore 07:19.

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Funzionale o di facciata? Rigida o aggirabile? Utile o inutile? Un regalo a Eurolandia o a Londra? Dopo l'adesione alla cooperazione rafforzata da parte di 11 Paesi (tra cui l'Italia), il dibattito sulla Tobin Tax si intensifica. Secondo Marchionne la tassa «è carica di significato politico e sociale, a causa del nome Tobin» ma resta incerta la sua utilità ai fini della crescita economica. Mentre il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, si augura che «che non si faccia un gran favore al sistema finanziario inglese».
Dal canto suo Bruxelles, per bocca della portavoce del commissario Ue Algirdas Semeta, puntualizza che la Tobin non potrà essere aggirata facilmente perché «si applicherà il principio della residenza che varrà anche quando la transazione sarà fatta altrove». Ma che cosa ne pensano gli operatori?

Il progetto originario
Prima però vediamo in cosa consiste la proposta presentata dalla Commissione Ue un anno fa. Prevedeva di introdurre una tassa dello 0,1% sulle operazioni riguardanti azioni e obbligazioni (escluso il mercato primario) e dello 0,01% per i contratti derivati. Il gettito annuo stimato, su scala Ue, era di circa 57 miliardi di euro. Calcoli sugli introiti possibili generati dalle transazioni negli 11 paesi non sono stati ancora aggiornati, ma la cifra potrebbe aggirarsi su alcune decine di miliardi, 20-30 miliardi di euro. Il via libera alla cooperazione rafforzata è atteso all'Ecofin del 13 novembre prossimo: dovrà essere dato all'unanimità. Poi anche l'Europarlamento dovrà esprimersi. I tempi per il lancio della nuova tassa potrebbero andare, nello scenario più ottimista, da fine 2013 al 2014.

Tanta etica, pochi risultati?
«Nel contesto attuale la Tobin Tax ha un elevato valore etico e segnaletico e, sotto lo stretto profilo "politico", appare indiscutibilmente legittima la sua applicazione», sottolinea Giuseppe Attanà, presidente di Assiom Forex, associazione di operatori con 1.500 membri in rappresentanza di circa 450 istituzioni finanziarie. «Diversa è la valutazione tecnica, laddove è noto che i mercati e le transazioni finanziarie non possono essere confinate geograficamente e, conseguentemente, i Paesi che agiscono in maniera più virtuosa rischiano in questo caso di essere beffeggiati e danneggiati, a favore di altri che speculano su una situazione oggettivamente difficile da governare, se non regolamentata in maniera omogenea».
Il rischio, continua Attanà, non è solo quello che le aspettative di introito di tale tassa si rivelino assai inferiori, per il semplice fatto che possano essere individuate modalità operative che consentano (legittimamente) di evitare l'applicazione della tassa in questione. C'è anche il rischio che, nel medio periodo, attività economiche legate direttamente o indirettamente ad attività finanziarie vengano delocalizzate in Paesi non assoggettati a tale imposta, con conseguenti perdite di posti di lavoro, reddito e produttività. «Sarebbe una burla che i Paesi ed i cittadini virtuosi certamente non meritano», conclude Attanà.

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