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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2013 alle ore 07:00.

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I dati lo confermano (guarda il grafico sull'inflazione nei Paesi europei). Dal 2002 al 2011 l'inflazione media registrata in Germania è stata dell'1,69%. Anche la Francia è riuscita a restare sotto il 2% (1,89%) mentre Italia (2,29%), Spagna (2,86%), Portogallo (3,6%) e Grecia (3,1%) hanno mediamente sforato la soglia che al momento detta legge a Bruxelles.

Nei fatti, dato che il cambio nominale è rimasto rigido, è come se Germania e Francia avessero svalutato mentre i competitori periferici avessero deflazionato le proprie economie, divenendo meno competitive. Questo perché, per Italia, Spagna, Portogallo e Grecia si è rivalutato il tasso di cambio reale nei confronti di Germania e Francia. Tasso che esprime la differenza tra i prezzi tra due Paesi che adottano una stessa valuta. E quello del tasso di cambio reale è un altro punto su cui la Germania ha beneficiato nel corso di questa crisi (per gli altri punti rimando all'articolo ecco perché la Germania guadagna dalla crisi).

«Entrare in un accordo di cambio nominale fisso e irrevocabile come l'euro vuol dire accettare implicitamente il fatto che la propria competitività, che dipende dal tasso di cambio reale, dipenda solo dal rapporto tra i prezzi relativi tra i partner, perché il tasso di cambio nominale è bloccato - spiega Carlo Altomonte, Docente di Economia dell'Integrazione Europea all'Università Bocconi -. Dunque più salgono i nostri prezzi rispetto a quelli tedeschi, o meno salgono i prezzi tedeschi rispetto ai nostri, più il tasso di cambio reale si rivaluta e noi perdiamo competitività».

Come mai Germania e Francia sono riuscite a contenere l'inflazione rispetto agli altri Paesi? «Per due motivi - prosegue Altomonte -. Da un lato la migliore dinamica della produttività in Francia e Germania: se la produttività aumenta, il costo del lavoro per unità di prodotto scende (o comunque non sale) e dunque le imprese non hanno bisogno di aumentare i prezzi per coprire i costi. Dall'altro la concorrenza: in Italia esistono forti barriere all'entrata/comportamenti collusivi in particolare nel settore dei servizi, che sono una componente importante dei costi di impresa, il che impedisce ai costi, dunque ai prezzi, di scendere in linea con l'andamento del mercato. L'esempio dei distributori di benzina è eclatante. Ma anche il settore della distribuzione è molto rilevante: in Italia abbiamo di fatto un oligopolio nella distribuzione che "schiaccia" al ribasso i prezzi per il produttore, ma li ricarica al consumatore, o impresa/negozio, finale. Il ruolo della criminalità organizzata in questo settore, sopratutto nell'alimentare, non è peraltro marginale. La situazione con la crisi è peggiorata: come mai siamo in recessione da praticamente quattro anni e l'inflazione da noi resta sempre sopra il 2%?».

Punti sui quali, non cocorda Federdistribuzione (leggi la posizione di Federdistribuzione).

Quanto incide invece l'afflusso di capitali stranieri nel rafforzamento del tasso di cambio reale e quindi nella riduzione della competitività? In questo momento «il deterioramento della bilancia dei pagamenti, ovvero un afflusso di capitali verso il Paese, dunque un deficit di partite correnti, spiega l'apprezzamento del tasso di cambio reale, anziche il contrario, ma solo per i Paesi dell'Est Europa. Non ho contezza di movimenti di capitale verso l'Italia così ampi da giustificare il fenomeno».

Resta il fatto che la combinazione cambio fisso/calo di produttività si sta rivelando un boomerang per quei Paesi come l'Italia. Per ottenere la riduzione dei prezzi (per guadagnare quindi competitività riducendo il tasso di cambio reale) c'è un'alternativa alle prospettive di decurtazione dei salari che ahinoi sembrano essere in atto?

«È il tema a cui sto lavorando in Banca centrale europea come advisor del "Competitiveness network" - conclude Altomonte -. Essenzialmente riguarda meccanismi di rilancio della produttività attraverso riallocazione delle risorse (lavoratori) tra le imprese. Il punto è quello di non toccare la media della produttività (dunque la media dei prezzi/salari) ma piuttosto la varianza (le "code" della distribuzione) della stessa attraverso opportune riforme del mercato del lavoro che non vadano a toccare il salario reale».

L'augurio è, appunto, che si esca da questa crisi senza passare attraverso la scure del taglio dei salari.

twitter.com/vitolops

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