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Questo articolo è stato pubblicato il 10 gennaio 2013 alle ore 17:45.
Il petrolio è salito ai massimi da tre mesi – oltre 113 dollari al barile nel caso del Brent – sulla notizia che l'Arabia Saudita ha ridotto del 4,9% la sua produzione di greggio nel mese di dicembre, a 9,025 milioni di barili al giorno. Si tratta di una diminuzione di 465mila barili al giorno, la più consistente da novembre 2008, quando l'Opec reagì alla recessione globale con un drastico taglio dell'output.
Il leader di fatto dell'Organizzazione dei Paesi esportatori di greggio non ha diramato alcun annuncio ufficiale. Ma le indiscrezioni sono state riportate negli stessi termini da tutte le maggiori agenzie di stampa internazionali: una "coincidenza" che suggerisce una diffusione orchestrata da Riad. Se l'intento era quello di far salire i prezzi, i sauditi l'hanno raggiunto, benché l'intensità del rialzo (poco più dell'1%) sia stata tutto sommato moderata, specie se si considera la presenza di altri fattori di tensione per il petrolio: in Yemen un attentato ha danneggiato il principale oleodotto, fermando potenziali esportazioni per 120mila barili al giorno, mentre i dati sulla bilancia commerciale cinese – oltre a segnalare in generale una robusta ripresa dell'export del gigante asiatico – mostrano che in dicembre Pechino ha aumentato dell'8% le sue importazioni di greggio.
A fronte del calo della produzione saudita, fanno notare molti analisti, c'è il boom dell'estrazione di shale oil negli Stati Uniti (oltre Oceano la produzione di greggio ha appena raggiunto 7 milioni di barili al giorno, il massimo da vent'anni). Sta inoltre crescendo a ritmi sostenuti anche l'output iracheno. A livello globale, intanto, la domanda petrolifera è piuttosto debole e inferiore – anche dopo il "taglio" saudita – all'offerta.
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