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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2013 alle ore 14:42.

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Continua l'odissea processuale del gruppo Banco Desio. L'udienza preliminare prevista oggi a Roma per le ipotesi di reato di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio è stata rinviata ancora, per la terza volta (la prima il 23 marzo 2012, la seconda il 5 ottobre scorso) al 19 aprile alle ore 9. Le richieste di rinvio a giudizio sono relative alle indagini condotte dal pubblico ministero di Roma Giuseppe Cascini e dal Gico della Guardia di Finanza dall'aprile 2009 sul gruppo Banco Desio.

L'accusa riguarda una dozzina di manager ed ex dirigenti che, tra il 2008 e il 2009, avrebbero costituito un'associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio per aiutare clienti facoltosi a esportare 20 milioni non dichiarati al Fisco. Tra gli indagati c'è Roberto Perazzetti, ex direttore generale di Credito Privato Commerciale, istituto di Lugano in liquidazione e, ai tempi dei fatti contestati, controllato da Banco Desio. Chiuse le indagini preliminari, gli inquirenti hanno chiesto il rinvio a giudizio dei manager e di tre società: la capogruppo, Banco Desio Lazio e Cpc.

Le contestazioni dei magistrati romani
Secondo le indagini condotte dalla Procura di Roma, il gruppo creditizio sarebbe stato coinvolto in alcune vicende riferite al 2009 tramite le controllate (all'epoca) Banco Desio Lazio e Credito Privato Commerciale (Cpc) di Lugano (in liquidazione), per le quali pende la richiesta di rinvio a giudizio insieme a un certo numero di esponenti e dipendenti che hanno poi lasciato gli incarichi, insieme al presidente, Agostino Gavazzi, all'ad Nereo Dacci e all'ex dg Alberto Mocchi. Secondo le indagini del sostituto procuratore del Tribunale di Roma, Giuseppe Cascini, sarebbero state cinque le modalità dei reati ipotizzati. Dirigenti e dipendenti del Banco si sarebbero mossi personalmente per raccogliere contanti in tutta Italia (soprattutto a Roma, Milano, Firenze e Modena) e portarli a Lugano per depositarli su conti cifrati. Sarebbero coinvolti funzionari della sede centrale, dirigenti e dipendenti delle filiali di Roma e Lugano. Ad affidare i fondi sottratti al Fisco per esportarli sarebbero stati imprenditori della sanità privata, edili, antiquari, agenzie di viaggio e anche un sacerdote, pagando commissioni molto alte.

La seconda ipotesi sostiene l'esistenza di un sistema di "compensazione" per limitare gli spostamenti fisici di denaro, che solo di rado varcava materialmente la frontiera. Chi voleva trasferire le somme le consegnava al funzionario di banca che, a sua volta, le metteva a disposizione di altri clienti bisognosi di liquidi in Italia. Qualche giorno dopo le operazioni venivano registrate al Cpc, a credito e a debito a seconda dei casi. C'è poi l'ipotesi di ricorso a società fantasma nei paradisi fiscali, costituite tramite fiduciarie in Svizzera e Lussemburgo (tutte in rapporto diretto o funzionale con il Banco) utilizzate sia per emettere fatture false per finte consulenze per trasferire all'estero denaro solo formalmente giustificato dalle fatture o per realizzare, per i clienti più ricchi tra cui i titolari di una nota clinica privata di Roma, un sistema di cartolarizzazione dei crediti. L'imprenditore che voleva esportare fondi neri cedeva a una società di cartolarizzazione complice un portafoglio di crediti verso clienti solvibili, in particolare enti pubblici. I crediti venivano svalutati e l'azienda venditrice registrava in contabilità la perdita, riducendo i ricavi e l'utile del l'esercizio su cui pagare le tasse.

L'azienda di cartolarizzazione cedeva il credito a una fiduciaria svizzera o lussemburghese a un prezzo più alto con un guadagno minimo. Questa cartolarizzava il credito emettendo bond acquistati da una società intestate a professionisti esteri, ma riconducibili di fatto alla prima azienda italiana venditrice del portafoglio. Prima della scadenza la società fasulla apriva un conto corrente al Cpc sul quale la fiduciaria, dopo aver ricomprato i titoli emessi in cambio di una commissione, versava la parte restante. Infine la società finiva in liquidazione e i fondi trasferiti in contanti su un nuovo conto cifrato, di solito intestato a un'altra falsa società ma a disposizione dell'azienda italiana che così recuperava il "nero" all'estero. Infine, c'è l'ipotesi che tra i servizi "extra" ci fosse il cambio, in anonimato, di valuta estera e la messa a disposizione, in alcune filiali italiane, di cassette di sicurezza, dove i clienti potevano parcheggiare denaro in contanti senza segnalazioni, prima che fossero raccolti da spalloni e trasferiti in Svizzera. In una di queste cassette le Fiamme Gialle in un'occasione hanno sequestrato 155mila euro pronti per essere spediti oltreconfine.

I contatti tra Perazzetti e Dacci
Esemplare dei rapporti del manager è la telefonata (registrata dagli inquirenti e agli atti dell'inchiesta) del 22 ottobre 2008 tra Perazzetti e Nereo Dacci, ad di Banco Desio e vicepresidente del Credito Privato Commerciale (in liquidazione). Oggetto della conversazione, sollevato da Dacci, era la notizia pubblicata dal «Sole 24 Ore» che alcuni Paesi europei avevano chiesto di inserire la Svizzera nella blacklist, la lista nera dei Paesi che non cooperano sui temi fiscali. Perazzetti si stizziva: «Il popolo svizzero s'incazza! Decisamente tutte le rogatorie vengono respinte una dietro l'altra! Quindi possiamo fare quello che vogliamo. I partiti borghesi, come vengono chiamati qua, vogliono mettere nella Costituzione sia il segreto bancario che la non assistenza giudiziaria. A quel punto sarò nella black list, tanto io continuerò a fare i soldi! Perché tanto qua continueranno a fare i soldi! Così non avremo più la rottura dei magistrati che danno l'assistenza per cose inesistenti. Così, anziché avere un miliardo e quattro di raccolta, ne avremo tre miliardi e mezzo!», concludeva Perazzetti.

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